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di Maria C. Fogliaro
Sul tema Trasformazioni del lavoro e mutamenti di civiltà si sono confrontati, il 24 giugno a Bologna, Carlo Galli (filosofo politico e deputato) e Giovanni Mari (professore di Storia della filosofia all’Università di Firenze), in un incontro pubblico promosso dalla Fondazione Gramsci Emilia-Romagna e Librerie.Coop, in occasione della presentazione di Il lavoro dopo il Novecento. Da produttori ad attori sociali. La città del lavoro di Bruno Trentin per un’«altra sinistra» (a cura di Alessio Gramolati e Giovanni Mari, Firenze, Firenze University Press, 2016, euro 19,90).
Nel 1997 Bruno Trentin − figura di primo piano, e per certi aspetti singolare, del mondo politico e sindacale italiano, alla guida della CGIL dal 1988 al 1994 − pubblicava La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, un ripensamento critico della cultura, del progetto e dell’azione politica della sinistra in Italia, alla luce delle profonde trasformazioni intervenute nel sistema capitalistico internazionale.
Il volume voluto da Gramolati e Mari − che origina da un seminario di studi, organizzato dall’Università di Firenze nel settembre del 2014 − si configura come un complesso di riflessioni polifoniche sulle proposte che l’ex segretario della CGIL ha lasciato nel suo libro più conosciuto e che Il lavoro dopo il Novecento mira anche a valutare nella loro attualità.
Frutto di un pensiero non allineato alle ortodossie marxiste, la Città del lavoro prende le mosse − dice Galli − dalla fine di un’epoca, ovvero dal «tramonto dell’impianto novecentesco dei rapporti fra Stato, capitale, lavoro e partito», che va sotto il nome di fordismo. Osservando gli effetti delle trasformazioni tecnologiche sull’organizzazione del lavoro, che necessitavano di sempre più alte dosi di conoscenza all’interno del processo produttivo, Trentin − sia contro il toyotismo (la nuova forma del dominio), sia contro le teorie dell’autonomia del politico e dell’autonomia del sociale − avanza «una proposta originale e sconcertante» fondata sulla scommessa che il lavoro «non sia una dura fatica risarcibile con lotte sindacali e con politiche sociali da parte dello Stato, ma abbia in sé − pur rimanendo fatica − la possibilità dell’autoformazione del soggetto». Una libertà che si differenzia da quella liberale perché non è fondata, come questa, sulla proprietà privata ma sull’azione.
È, questa, una ripresa dell’argomentazione hegeliana che vede nel lavoro «la possibilità universale di realizzazione della libertà del singolo», e che Trentin − intellettuale di formazione internazionale − coniuga con la concezione del lavoratore come «persona», mutuata dal personalismo cattolico francese. Il soggetto della libertà non è più il proletariato, quindi, ma la persona. Il che fa sì che l’accento sia posto sull’idea di «lavoro scelto» (cioè un lavoro di qualità in cui si esercita indipendenza, spirito critico, capacità conoscitiva) e che, afferma Galli, nonostante sia stato smentito dalla realtà, rapportato all’oggi ha un grande valore umanistico e uno stretto rapporto teorico con la «Carta dei diritti universali del lavoro» presentata dalla CGIL.
La città del lavoro costituisce per Mari una «rottura epistemologica», una «rivoluzione paradigmatica» che rimette in discussione la cultura e l’impostazione della sinistra nel Novecento. Trentin − afferma Mari − crede che la crisi del fordismo ponga fine al «lavoro astratto» (quello di Marx) e alla distinzione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, cioè fra lavoro, opera e azione (per usare le categorie di Arendt). Essa, infatti, inaugura un «nuovo rapporto tra direzione e lavoro dipendente, conflittuale ma partecipativo», che apre le porte al «lavoro concreto», caratterizzato dalla necessità di estendere ai lavoratori «porzioni sempre più ampie di diritti nella sfera della conoscenza e dell’informazione».
Un lavoro, quindi, in grado di favorire la liberazione e l’autorealizzazione della persona e di innestare − anche attraverso le garanzie formali (i diritti) offerte dallo Stato, e attraverso uno sviluppo storico graduale − un processo di riforma della società civile. La difesa sindacale (ma anche politica) dell’universalità dei diritti del lavoro si accompagna, nel pensiero del sindacalista, alla trasformazione del lavoro in un «attore sociale» che partecipa attivamente alla costruzione di una società più democratica. Libertà e democrazia hanno quindi per Trentin un valore fondativo rispetto a un sindacato che viene concepito come un soggetto in grado di farsi carico di un progetto di trasformazione della società.
Dal dialogo fra i due studiosi è emerso che quello di Trentin è un pensiero di alto profilo, che prende sul serio alcune suggestioni del neoliberismo (il graduale prevalere del lavoro cognitivo), accettandone la sfida. Certamente eccentrico rispetto al panorama politico e sindacale italiano del suo tempo, quel pensiero è in seguito profondamente penetrato nelle riflessioni e nelle pratiche dell’attuale dirigenza della CGIL, mentre è stato smentito proprio dalla «rivoluzione passiva» neoliberista, che alle sue promesse ha fatto seguire una realtà di disoccupazione, inoccupazione, lavoro precario e malamente retribuito. Nondimeno, il personalismo della libertà proposto da Trentin rappresenta ancora un’ipotesi teorica – forse da integrare con una nuova riflessione sul ruolo positivo dello Stato – con la quale chiunque affronti il tema del lavoro e della sua storia è obbligato a confrontarsi.