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di Maria C. Fogliaro
«The King is here»: così un incredulo Egil ‘Bud’ Krogh, consigliere del Presidente Nixon, si sentì annunciare da un entusiasta Dwight Chapin, dello staff presidenziale, l’improvviso e inimmaginabile arrivo di Elvis Presley alla Casa Bianca. Era il 21 dicembre 1970, e quel giorno «il Re del Rock ‘n Roll», senza preavviso, si presentò − con i capelli lunghi, i basettoni, e l’abbigliamento eccentrico e sfavillante di sempre − a Washington per vedere Richard Nixon. Una fotografia − la più richiesta dell’Archivio di Stato americano −, che li ritrae mentre si stringono la mano, è l’unica testimonianza ufficiale di quell’incontro divenuto ormai leggendario. Nessuno sa che cosa si dissero da soli, nello Studio Ovale, «The King» e l’allora uomo più potente del mondo.
In Elvis & Nixon (USA, 2016, 86’) Liza Johnson − partendo dai ricordi di Egil ‘Bud’ Krogh, e da Me and a Guy Named Elvis scritto da Jerry Schilling, amico intimo di Elvis − costruisce un racconto verosimile, e proprio per questo a tratti surreale, di quell’avvenimento rimasto fortemente impresso nell’immaginario popolare americano.
Di fronte a un’America minacciata dalle contestazioni all’ordine sociale e politico, dal disordine morale e dal «pericolo rosso», Elvis (un eccezionale Michael Shannon) − figlio devoto e grato alla Nazione che lo ha innalzato come un dio sull’Olimpo della musica, e oltre − decide che è arrivato il momento di essere utile al proprio Paese. Il modo migliore − egli pensa − è quello di prestare servizio come «agente federale aggiunto» sotto copertura, per combattere la diffusione della droga che aveva inondato gli Stati Uniti e che stava portando le giovani generazioni all’autodistruzione. E vuole ottenere l’incarico da Nixon (un grande Kevin Spacey) in persona. Così il Tigre − uno dei soprannomi che Elvis amava usare − scrive una lettera al Presidente, e con un aereo di linea vola a Los Angeles dal fedele Jerry Schilling (Alex Pettyfer), detto anche il Puma, in cerca di aiuto. I due amici partono immediatamente per Washington, e insieme si recano alla Casa Bianca, dove Elvis, presentandosi come John Burrows, consegna a due esterrefatti militari che presidiano l’ingresso la lettera da recapitare direttamente a Nixon.
Mentre Elvis e Jerry in attesa della risposta si rifugiano in albergo, dove presto sono raggiunti da Sonny West (Johnny Knoxville), della cosiddetta Memphis Mafia − il soprannome dato al gruppo di amici e impiegati tuttofare che seguivano la star in ogni suo passo −, alla Casa Bianca Egil ‘Bud’ Krogh (Colin Hanks) e Dwight Chapin (Evan Peters) cercano di convincere un riluttante Nixon ad accettare di incontrare, anche per motivi di immagine, «Il Re». Ma, alla fine, solo una telefonata della figlia del Presidente, fan di Elvis, sbloccherà positivamente la situazione, e «il Re» si presenterà alla Casa Bianca con una Colt della Seconda guerra mondiale in regalo.
Appoggiandosi a una colonna sonora di grande effetto curata da Ed Shearmur − con il pezzo di apertura Ride, Baby Ride di Ricky Rialto, remixato sulle note di A Little Less Conversation di Elvis, e con l’inserimento di alcuni fra i più famosi brani musicali di tutti i tempi (come quelli di Otis Redding o dei Creedence Clearwater Revival) −, ma che non contiene nessuno dei successi di Presley, la regista americana e gli sceneggiatori − Joey e Hanala Sagal, e Cary Elwes − inventano una commedia dal ritmo vivace, incentrata sui dialoghi brillanti fra le due icone d’America, che, a dispetto dei rispettivi, diversissimi, stili di vita, scoprono, nel corso del loro breve incontro, di avere in realtà molto in comune: l’amore per i tradizionali valori stars and stripes, e soprattutto l’avversione per le sperimentazioni allucinate, gli eccessi, il permissivismo e il radicalismo della controcultura hippie.
Il film − costruito intorno a lunghi piani medi, primi piani e messa a fuoco di dettagli − si regge interamente sulla recitazione fenomenale di Spacey e di Shannon, capaci entrambi di dar vita a due personaggi lontani da quelli che la storia ci ha consegnato, per nulla seducenti (nel caso di Elvis) o del tutto deprecabili (nel caso di Nixon), ma che, al contrario, risultano comici e malinconici al contempo, contraddistinti entrambi da una solitudine esistenziale che sembra ineliminabile, pieni di insicurezze e di paranoie, che li rendono tanto umani e bisognosi d’affetto. E mentre con i loro discorsi e con la loro fisicità strappano sorrisi, portano − in maniera bonaria − lo spettatore a riflettere su un’America che guarda con grande indulgenza a se stessa e al proprio passato, in un’atmosfera che la luce “sporca”, gli arredi e i costumi ci consegnano avvolta nel ricordo e nella nostalgia del «come eravamo».
Su tutto c’è l’idea forte, propria della cultura americana, dell’individuo che da solo e dal niente scala le vette della fama e del successo, pagando spesso un prezzo privato altissimo. E che per questo − nonostante la ricchezza o il potere ottenuti − ha bisogno di compensazioni: quelle che Elvis cerca nel distintivo tanto desiderato, e che Nixon sembra trovare nello scoprire di non essere poi una così brutta persona. Come la fotografia dalla quale siamo partiti, il film immortala due dei simboli della storia americana contemporanea all’apice del loro personale successo, colti proprio nel momento in cui stanno per tramontare: Nixon, infatti, cadrà nel 1974 per i contraccolpi del Watergate, ed Elvis − a causa di un rapido declino fisico e psicologico − morirà nell’agosto del 1977 a soli quarantadue anni. Ma in quel lontano 21 dicembre 1970 sono ancora il Re e il Presidente.