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Diario europeo n. 38
“Sintomo” viene definito dal Dizionario della lingua italiana: “segno o indizio di un fatto, suscettibile di rivelarsi in forma più esplicita”. L’approdo, quindi, non è inevitabile e neppure automatico, però presenta caratteri di probabilità.
Prendiamo tre di questi “segni-indizi”, a titolo meramente esemplificativo:
• nel 2015 il Consiglio con voto a maggioranza ( il cui profilo giuridico-istituzionale è: “Il Consiglio esercita, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio”, art. 16 del Trattato sull’Unione europea) decide il ricollocamento nei diversi Paesi membri di 160 mila immigrati dall’Italia e dalla Grecia. Questa “decisione-norma” non viene ancora applicata, a seguito della esplicita “disobbedienza” della quasi totalità dei membri dell’Unione (recentemente la Germania ha deciso – “bontà sua” – di riceverne una parte);
• Il 23 giugno 2016, il paese membro dell’Unione – Regno Unito – tiene un referendum consultivo (nessun obbligo di farlo derivava dalle sue leggi: soltanto una libera ed autonoma volontà dell’allora capo del governo David Cameron) sulla permanenza o l’uscita dall’Unione europea. Il 24 mattina tutto il mondo ed anche tutti i popoli dell’Unione europea conoscono i risultati del referendum popolare: uscire. Il Trattato afferma: “Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo” (art. 50). Ad oggi (99 giorni da quel 23 giugno) il Regno Unito (il suo governo/esecutivo o il suo Parlamento: aspetto che non riguarda né l’Unione, né i 27 Paesi membri) si rifiuta di “notificare” qualcosa che è molto di più di una “intenzione”.
• Domenica prossima 2 ottobre 2016, il Paese membro dell’Unione – Ungheria- terrà un referendum popolare per rispondere a questo quesito: “Volete autorizzare l’Unione europea a decidere il ricollocamento in Ungheria di cittadini non ungheresi senza l’approvazione del parlamento ungherese?” (come sempre, Viktor Orbàn fa da testuggine anti europea, per conto del gruppo di Visegrad : Slovacchia, Polonia, Ceka, Ungheria, che – sia detto per inciso- vogliono i fondi europei per lo sviluppo, ma non i rifugiati che fuggono dalle guerre).
L’allarme che, questa volta, “Diario” intende lanciare è, da una parte, di tipo giuridico-istituzionale, dall’altra strategico-politico. Si va configurando, infatti (oltre ai profili politici ed etici a cui ciascuna di queste violazioni rinvia in modo specifico) uno “stato di fatto” in cui il Trattato (la più alta base giuridica dello stare insieme), le Istituzioni dell’Unione, numerosi Stati membri e relativi popoli vengono messi di fronte al “fatto compiuto”. Senza che venga attuato immediatamente e solennemente dinanzi alla pubblica opinione alcuna misura a difesa e salvaguardia della “legalità” e del “Diritto” europei (dell’Unione). Qualunque Stato o Democrazia al mondo non potrebbe resistere e sussistere a lungo in una situazione di permanente ed arrogante violazione del “Diritto”, all’interno del suo territorio. Perché dovrebbe riuscirci questa Unione europea? “Diario” ricorda che alle violazioni di natura e rischio democratico molto meno incisive, quali le indebite concessioni di aiuti di stato o la errata erogazione di finanziamenti, ecc. scatta immediatamente la procedura finalizzata sia al recupero delle somme, sia alla penalizzazione aggiuntiva.
Non accade la stessa cosa in merito a fenomeni assai più rilevanti.
Ad un anno dalla Decisione comunitaria sul ricollocamento (entro il settembre 2017) di 160 mila persone, sono soltanto 5.651 i profughi trasferiti (4.455 dalla Grecia, 1.196 dall’Italia). Ecco le cifre – assolutamente eloquenti dei Paesi membri che hanno accolto profughi dall’Italia: Finlandia (260); Francia (231); Portogallo (183); Olanda (178); Germania (20); Lussemburgo (20); (Belgio (29); Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lituania, e Slovacchia non hanno accolto nessun profugo. (Come si diceva sopra: la Germania, ora, si è impegnata a ricevere 500 profughi al mese; e il Belgio 100 profughi al mese). In termini di “legalità” la Commissione ricorda che: “i Paesi membri hanno l’obbligo legale a ricollocare”; che: “la Legge Ue non è opzionale, ciò che gli Stati hanno deciso assieme deve essere applicato”; che:“la Commissione si riserva comunque di intraprendere azioni legali”.
E’ in questo contesto che uno Stato membro – l’Ungheria – domenica 2 ottobre, ricorre ad un referendum popolare. Cosa è: una sfida? A chi: a tutti gli altri Stati membri e all’Unione in quanto tale? Alcuni analisti cin informano di un recente dossier del Servizio Studi del Senato italiano rileva che nella Costituzione della Ungheria si esclude il ricorso al referendum su “ogni obbligazione derivante da trattati internazionali”; ciononostante la Corte suprema e la Corte costituzionale ungheresi (recentemente riformate dal governo Orbàn) hanno ammesso il quesito.
Ecco cosa accade sotto il cielo dell’Unione!
Scrive il professor Pietro Manzini (ordinario di Diritto dell’Unione europea presso l’università di Bologna), a proposito del referendum ungherese: “ il referendum è illegale perché viola il principio di supremazia del diritto europeo sulle leggi nazionali, uno dei fondamenti logici, prima ancora che giuridici, dell’Unione. Essa è stata riconosciuta dalla Corte di giustizia sin dal 1964 ed è consacrata nei trattati che l’Ungheria – e in particolare il suo parlamento – ha accettato senza riserve al momento dell’adesione” (avvenuta, peraltro seguendo la lettera dell’art. 49, che i lettori e le lettrici hanno avuto modo di conoscere nei precedenti “Diari”). Pietro Manzini sottolinea anche un secondo profilo della violazione, quello basato sul “principio di solidarietà”: è quello stesso principio in forza del quale, l’Ungheria può (ha persino il “diritto”) ricevere i fondi europei -costituiti con le risorse di tutti gli altri Stati membri (e i loro cittadini contribuenti). Se quei principi vengono intaccati, dovrebbero decadere anche i frutti della solidarietà allo sviluppo e al progresso sociale ed economico dei cittadini ungheresi. “Non è la prima volta che uno Stato infrange gli impegni presi con la sua adesione all’Unione europea – aggiunge Manzini – ma la violazione dell’Ungheria è inedita e molto più pericolosa delle precedenti perché, per la prima volta, è perpetrata deliberatamente e mediante un referendum popolare” (ivi, “l’Unità”, 28 settembre 2016). Non risulta che siano incorso procedure ed atti finalizzati ad impedire o contrastare tale violazione; nessuna pubblica manifestazione di contrarietà è stata espressa nel cosiddetto vertice di Bratislava; dove il signor Orbàn – capo del governo ungherese- ha regolarmente partecipato alla foto (ricordo!?) a conclusione della riunione/vertice. Scioccamente si ritiene che non avendo il referendum alcuna conseguenza giuridica – se non la conferma del rifiuto già in atto al ricevimento della quota regolamentare di immigrati (attualmente detiene soltanto 1.294 rifugiati su quasi 10 milioni di abitanti) – il silenzio delle Istituzioni dell’Unione e delle cancellerie degli Stati membri è sopportabile o ammissibile? Ma è proprio in questa supposizione e in questo approccio che si manifesta precisamente il “sintomo” (cfr. la definizione, da Dizionario di lingua italiana sopra riportata), e se ne costruiscono le premesse, del fallimento della Unione europea come entità giuridica e politica. Non sono “questioni di lana caprina”. Al contrario: se vengono meno – in punta di diritto o nella pratica – questi elementi del “Diritto europeo”, questa Unione resta soltanto uno “spazio economico e di mercato”. E’, appunto, la visione di un numero importante (anche se non maggioritario ora che il Regno Unito ha espresso la “intenzione” di uscire) di Stati membri: tra essi il gruppo di Visegrad.
Un altro “sintomo” riguarda la mancata notifica da parte del Regno Unito della “intenzione” di uscire dall’Unione, nel “lontano” 23 giugno, novantanove giorni fa.
Dopo il cosiddetto “vertice” di Bratislava nel quale non si è fatto – formalmente e pubblicamente cenno alla questione del Brexit e della incredibile incuranza del regno Unito all’applicazione dell’art. 50 – lo scorso 27 settembre si è tenuta, sempre a Bratislava ( in quanto capitale dello Stato membro che detiene fino a dicembre la presidenza semestrale, di turno, della U.E.) una riunione del “Consiglio” ( informale) dei ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Unione. Una riunione – seppure informale – del Consiglio, di grande importanza ( un giorno, se le “rose fioriranno”, questa data sarà ricordata come una data storica!) nella quale sono state presentate, ufficialmente e finalmente, quattro proposte di riforma di strumenti della Difesa e della Sicurezza nell’Unione europea: una da parte dell’Alto rappresentate dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini; un’altra del ministro italiano Roberta Pirotti; un’altra del ministro tedesco Ursula von del Leyen; un’altra del ministro francese Jean-Yves Le Drian. Presente alla riunione (in quanto nessuna “Notifica” è stata ancora fatta relativamente all’uscita dall’Unione, quindi nel pieno delle sue funzioni e dei suoi “diritti” di membro dell’Unione!), il ministro inglese Michael Fallon ha manifestato una forte opposizione alla proposta: nonostante la evidente circostanza che tali politiche riguarderanno, in ogni caso, il processo di integrazione della UE, successivo al Brexit. Ecco svelato che la mancata “notifica” non è un mero fatto burocratico: infatti, il Ministro di un Paese membro che ha già deciso di uscire dall’Unione e che – non rispettando il Trattato vigente – si rifiuta di effettuare la comunicazione formale di tale volontà, può partecipare ed intervenire nelle riunioni dei membri ed operare esplicitamente in contrasto con le strategie dell’Unione, suscitando ed appoggiando le perplessità, le incertezze, i tentennamenti dei membri attuali di questa Europa unita (soprattutto degli Stati membri dell’Europa dell’Est). Egli diventa – di fatto – un agente di disintegrazione. E tutto ciò dovrebbe essere ritenuto “normale”? Tutto ciò, mentre nei vicini Paesi balcanici cresce, in queste ore, una tensione interna preoccupante, che richiede dalla Unione europea attenzione e iniziativa politica, tesa a farsi, da una parte, interlocutrice delle aspirazioni europeiste dei Paesi di quell’area che da tempo le manifestano, dall’altra un agente strategico di rasserenamento delle tensioni interne all’area. Da quei martoriati territori, giunge, in questi giorni, all’Unione europea una richiesta di attenzione che sarebbe grave ignorare; le proposte presentate e condivise da Italia, Germania, Francia ed altri a Bratislava vanno nella direzione anche della stabilizzazione della vicina area balcanica. Nello stesso tempo danno una risposta forte a tutti i popoli degli Stati membri che manifestano preoccupazioni proprio in materia di Sicurezza e controllo delle frontiere esterne. Sulle cui “paure e ansietà”, la Gran Bretagna – dopo il suo referendum – dovrebbe avere almeno la decenza del rispetto e del non-intevento.
E’ triste – che altro aggettivo usare?- costatare che quella opinione pubblica che all’indomani della riunione inconcludente di Bratislava esprimeva meraviglia e critiche a fronte della dura reazione del presidente del Consiglio italiano, sorvoli o giri la testa dall’altra parte, davanti a queste manifestazioni “sintomatiche” della Disintegrazione europea in atto. E’ necessario, al contrario, alzare l’asticella della vigilanza e dell’allerta: la salvezza di questa Unione Europea sta nella capacità di cogliere i sintomi del grande rischio, di farlo in tempo utile; di non ripetere – drammaticamente – la vicenda dei “sonnambuli” alla vigilia del grande conflitto del 1914, che ‘Diario’ ha spesso evocato. “Condividere le iniziative per far vivere meglio i cittadini europei e per difendere la loro sicurezza, sul doppio versante dell’immigrazione e della lotta al terrorismo, è una necessità immediata” (cfr. Paolo Lepri, “La ‘Repubblica europea’ che rischia di crollare”, in: Corriere della sera, 29 settembre 2016). Il fatto nuovo – di cui pare che non ci si renda conto – è che la risposta a queste necessità europee “non può più essere il risultato lento, sempre insoddisfacente, di uno sforzo di unità elaborato. Le grandi emergenze vanno affrontate in modo bipartisan a livello politico, utilizzando le forze responsabili residue” (ivi). Il giornalista – per anni corrispondente del “Corriere della sera” a Berlino – sottolinea la “novità” di una Cancelliera tedesca che, davanti al suo Paese, ha espresso (all’indomani della sconfitta elettorale nel Land di Berlino), con inatteso candore, “il desiderio di riportare indietro le lancette dell’orologio, per affrontare in modo più organizzato la crisi dei rifugiati e mettere meglio a punto le politiche di accoglienza e di integrazione dei dannati della terra che stanno cambiando tutto quello che vediamo attorno a noi”.
Su quali e quante altre emergenze (non più tali, in quanto da tempo nell’agenda istituzionale e di governo della Unione e dei suoi Stati membri!) bisognerà desiderare di riavvolgere il nastro della storia, con la consapevolezza di non poterlo fare?
Intervenendo alla Commissione economica del Parlamento europeo, il presidente della Banca centrale ha ancora una volta sottolineato che “senza completare il progetto europeo la nostra Unione rimane vulnerabile”. Ed entrando – con la consueta asciuttezza e andando anche oltre la sua specifica missione – nel merito dell’agenda europea, ha aggiunto: “tre sono le linee d’azione urgenti che l’Unione deve seguire: la prima è intervenire con nuovi progetti in materia di immigrazione, sicurezza e difesa, per andare incontro alle preoccupazioni dei cittadini; la seconda è ripristinare la fiducia tra i Paesi in materia di conti pubblici (“esiste una asimmetria nelle regole di bilancio europee: mentre ai paesi che non hanno margini è vietato usare lo spazio che non hanno, i paesi che hanno margini non sono costretti ad usare questo spazio”); la terza è il completamento dei progetti di integrazione già avviati, a cominciare dall’Unione bancaria e dal mercato unico dei capitali”. E successivamente – il 28 settembre, a Berlino – affrontando a muso duro i parlamentari tedeschi (a porte chiuse), Draghi ha sottolineato che: “ se una banca presenta una minaccia sistemica per la zona euro, questo non può essere a causa dei bassi tassi di interesse ma di altre ragioni”. Il riferimento così esplicito, autorevolissimo e grave, in quanto fatto in una sede parlamentare dal presidente della Banca centrale europea che ha anche il compito della vigilanza sulle Banche europee, alla Deutsche Bank (le cui gravissime difficoltà, gli incauti parlamentari tedeschi avevano tentato di attribuire la causa alla politica monetaria espansiva della BCE) dovrebbe essere un monito anche per il (cosiddetto) “ministro delle Finanze più potente d’Europa”, Wolfgang Schauble. (Mentre questo “Diario” va on line giunge notizia delle reiterate gravi difficoltà del secondo gruppo bancario tedesco – Commerzbank – già salvato dal Tesoro di Berlino nel 2007 con una iniezione di 18 miliardi di euro, diventandone azionista, come ancora oggi con il 15%).
Più volte, “Diario europeo” (insieme ai suoi lettori e alle sue lettrici) si è domandato: “Per chi suona la campana”? Lettrici, lettori e Diario conoscono le parole – serie, impegnative, anche inquietanti – con le quali il poeta continua, ammonendoci tutti: “ Non mandare a chiedere per chi suona la campana, essa suona per te”.