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di AMINA CRISMA
(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)
Con questo volume, che ripercorre l’evoluzione della poesia cinese dalle origini alla dinastia Tang, Melinda Pirazzoli, docente dell’Università di Bologna, ci offre una raffinata strumentazione esegetica per accedere alla multiforme ricchezza di un peculiare linguaggio in cui si esprime il cuore della cultura cinese.
Benché l’interesse per la poesia cinese classica sia da tempo presente nella cultura italiana (lo era già, ad esempio, fra gli intellettuali che si riunivano intorno alla rivista La Voce nella Firenze del primo Novecento), nel panorama editoriale del nostro Paese esso poteva finora fare affidamento su un repertorio piuttosto circoscritto, che, a parte i riferimenti in manuali di letteratura come quello di Lionello Lanciotti (ISIAO 2007), annoverava segnatamente alcune note antologie, come Liriche cinesi a cura di Giorgia Valensin (con prefazione di Eugenio Montale, Einaudi 1943) e Le trecento poesie Tang a cura di Martin Benedikter (Einaudi 1961). Si avvertiva la mancanza di un’offerta antologica più estesa, rivisitata alla luce delle acquisizioni critiche più recenti e corredata di un apparato esegetico tale da permettere l’accesso alle complesse risonanze di un linguaggio che, come ben ci ricordava François Cheng ne L’écriture poétique chinoise (Seuil 1977), non di rado privilegia i modi allusivi.
A tali esigenze viene oggi a rispondere il cospicuo volume Intenti poetici. Poesia, poeti e generi poetici della Cina classica dalle origini alla dinastia Tang (Ananke, luglio 2016) di Melinda Pirazzoli, studiosa, oltre che di poesia classica, di narrativa contemporanea, che insegna Filologia e Letteratura cinese all’Università di Bologna. Come spiega l’autrice, il titolo fa riferimento a un enunciato della prefazione allo Shijing, il Classico delle poesie: “La poesia è dove l’intento va. Quando è latente all’interno del cuore, rimane puro intento; diventa poesia solo nel corso della declamazione”, e dunque per comprenderla e apprezzarla occorre tentare di recuperarne l’”intento”, impresa non semplice, poiché “il ‘latente’ si cela dietro ai caratteri che il poeta sceglie per descrivere la propria condizione”. Da quest’assunto deriva la struttura del libro, ispirata a “modalità di lettura e analisi conformi a quelle della cultura cinese, una cultura che, nella tradizione classica, ha sempre incorporato il commentario analitico all’interno del corpo poetico” (p. 5).
I testi sono così presentati sia in caratteri tradizionali sia in caratteri semplificati, corredati di trascrizione fonetica nel sistema pinyin, e la traduzione dei singoli caratteri che compongono i versi è sempre premessa alla versione complessiva. Tale articolato approccio consente anche al lettore non specialista di cogliere le modalità di funzionamento di una scrittura poetica che sfrutta con consumata abilità le risorse di una lingua monosillabica estremamente concisa. Alle traduzioni, nitide e fluide, si affiancano commenti che attingono a un ricco repertorio esegetico antico e contemporaneo, cinese e occidentale, da Confucio a François Jullien.
Fin dall’inizio si evidenziano alcune tematiche peculiari, quali la corrispondenza sovente enfatizzata fra i ritmi della natura e della vita umana, e si sottolinea il caratteristico intreccio fra esercizio poetico e pratica della riflessione che caratterizza la cultura tradizionale cinese. La tematica amorosa non di rado si presta ad essere interpretata come allegoria etica e politica, in cui i rapporti fra l’innamorato e l’amata adombrano le relazioni fra il sovrano e la regina, o fra il suddito e il sovrano. Ma l’aspetto forse più interessante dell’esegesi antica, come il volume ci rammenta, è un pregnante ideale di misura, distante da eccessi e da ostentazioni, di cui si fa interprete Confucio commentando Il lamento del falco pescatore, famosa canzone del Classico delle poesie, il libro più frequentemente citato nei suoi Dialoghi; di essa, egli dice che “suscita gioia pur senza essere immorale, suscita tristezza pur senza ferire” (Lunyu 3.20). La malinconia del desiderio frustrato e la fiducia in un soddisfacimento futuro, che avverrà in un rito nuziale scandito da campane e tamburi, vi si esprimono in limpidi distici di intensa musicalità:
Guan guan, canta il falco pescatore/ sull’isoletta del fiume./ Leggiadra è la fanciulla/degna compagna del signore./ Lunghe e corte piante di lemme,/a destra e a manca le coglie./Leggiadra è la fanciulla,/ la cerca nel sonno e nella veglia./La cerca, ma non la trova,/nel sonno e nella veglia l’agogna./ (…) Leggiadra è la fanciulla./ Con la campana e il tamburo la renderò felice. (pp. 18-19)
Ed è a una dimensione quotidiana e sommessa che ci riportano varie liriche, come Ti prego, Zhongzi, spesso celebrata per la sua fresca immediatezza, in cui la voce poetica è quella di una ragazza che si schermisce dall’assalto di un corteggiatore, combattuta fra le esigenze convenzionali del decoro e l’insorgenza insopprimibile del desiderio:
Zhongzi, ti prego!/ Non oltrepassare il mio giardino,/ non spezzarne i rami di sandalo./ Che mi importa di loro?/ Temo i pettegolezzi della gente./ Zhongzi, tu puoi dimorare nel mio cuore,/ ma anche i pettegolezzi della gente possono essere temuti. (pp. 26/27)
Per quanto largamente presente, il tema erotico tuttavia non è certamente l’unico a comparire in questa rassegna. Vi appare come grande protagonista il paesaggio a fronte della solitudine del soggetto, come nel seguente componimento di Xie Lingyun (385-433), Passeggiando lungo il fiume Jinzhu, che non manca di evocare gli equivalenti visuali di una pittura ispirata da un affine sentire:
Grida di scimmia mi rassicurano sull’avvento di una nuova alba./ valli nell’oscurità, tardivi i raggi di luce,/ Sotto la scogliera, cumuli di nuvole assiepate,/ rugiada che luccica sui fiori lascia cadere goccia dopo goccia./(…) Tra le mie mani, orchidee che invano cerco di legare,/colgo canapa, non c’è nessuno a cui mostrare il mio cuore. (…) (pp. 127-129).
Ma è soprattutto nelle celeberrime liriche di Li Bo (701-762) che il paesaggio diviene integralmente espressione di uno stato d’animo, come in Accompagnando un amico, in cui le verdi montagne, le bianche acque, le nuvole vaganti e il sole al tramonto sono lo scenario di un commiato dove si concretizza il pathos della lontananza (pp. 169-170), o nella straordinaria Bevendo in solitudine sotto la luna (pp. 172-173), in cui la gioiosa ebbrezza del vino congiunge per un momento, come compagne per un attimo, l’ombra del poeta e la luna.
In questo volume peraltro non compaiono solo momenti di rarefatta contemplazione. Altri e diversi accenti si esprimono, ad esempio, in una poesia dell’epoca degli Stati Combattenti, che ne evoca i sanguinosi campi di battaglia, e che può sembrare per certi versi affine alla Ballata del soldato di Bertolt Brecht.
Quale erba non ingiallisce?/ Quale giorno non marceremo?/ Quale uomo non è stato arruolato/ per difendere le frontiere?/ Quale erba non annerisce?/ Quale uomo non si ammala?/ Ahimé, noi soldati/ soli e trattati come se non fossimo uomini. (pp. 38-39)
Tramite le sue dense pagine, questo libro ci induce, da una parte, a una rinnovata riflessione sugli aspetti transculturali dell’umano sentire che rimangono sostanzialmente ignorati dalle retoriche improntate all’essenzialismo culturale oggi predominante, e dall’altra ci invita a sottrarre qualsiasi ragionamento sull’“universalmente umano” ai costrittivi schemi di una presunta uniformità, mostrandoci quanto i linguaggi espressivi siano concretamente e irriducibilmente plurali – una duplice prospettiva, questa, significativamente additata negli ultimi decenni da filosofi cinesi contemporanei quali Li Zehou (La via della bellezza, Einaudi 2004). In tal senso, quest’antologia andrebbe inclusa fra le opere che potrebbero efficacemente concorrere a quell’educazione interculturale alle humanities sulla cui attuale necessità ha pronunciato parole particolarmente eloquenti Geoffrey Lloyd (Grecia e Cina, due culture a confronto, Feltrinelli 2008). Più specificamente, essa ci mostra la profondità della reciproca implicazione di pensiero e poesia caratteristica della pedagogia confuciana, che è progetto unitario e integrale di costruzione di “uomini esemplari” (junzi) in cui il senso della bellezza e il senso dell’umanità e della giustizia (renyi) sono indissociabili, ed etica ed estetica, morale e politica sono concepite come aspetti convergenti e intimamente correlati. Tale progetto si attua sul piano della coltivazione interiore: una cura di sé rivolta alla “santità interiore” (neisheng), che non rappresenta la ricerca di una solipsistica perfezione, bensì la premessa necessaria per la “regalità esteriore” (waiwang) ossia per il governo del mondo: come ci rammenta l’ode Non toccare il grande carro (pp. 36-37), porre ordine in se stessi è precondizione per poter riordinare il tianxia, “tutto quanto sta sotto il cielo”. Un’antica idea che suona singolarmente – e provocatoriamente – inattuale, in questi tempi di depoliticized politics.
AMINA CRISMA
(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)