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di Amina CRISMA
(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)
Il più recente libro del celebre sinologo e filosofo francese propone in venti contrasti un lessico euro-cinese che rappresenta il compendio del suo ormai trentennale lavoro di “usage philosophique de la Chine”, e ci offre una rinnovata occasione per riflettere sulla controversa questione, oggi più che mai dibattuta e aperta, del nostro rapporto con il pensiero cinese.
Per tutti coloro che sono interessati al problema sempre aperto, e oggi più che mai vivacemente discusso, dei rapporti della cultura occidentale con il suo Grande Altro che è la Cina, offre senz’altro una buona occasione di riflessioni e dibattiti rinnovati il libro di François Jullien che esce ora da Feltrinelli, nella limpida traduzione di Emanuela Magno e con la supervisione di Marcello Ghilardi, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti (De l’être au vivre. Lexique euro-chinois de la pensée, Gallimard, Paris 2015). Questo volume è il più recente che appare in Italia del prolifico cantiere inaugurato nel 1989 con Procès ou création (Processo o creazione,Pratiche 1991), e che annovera, solo per ricordare alcuni dei titoli più celebri e importanti accessibili al lettore italiano, opere quali Elogio dell’insapore (Cortina 1999), Trattato dell’efficacia (Einaudi 1998), Figure dell’immanenza (Laterza 2005), La Grande immagine non ha forma (Angelo Colla 2004), Il saggio è senza idee (Einaudi 2002), Strategie del senso in Cina e in Grecia (Meltemi 2004), Logos e Tao (Laterza 2008), Il nudo impossibile (Sossella 2004), Quella strana idea del bello (Il Mulino 2012).
L’intento del libro, come l’autore dichiara nell’introduzione, è di offrire una sorta di bilancio di un’ ormai quasi trentennale attività, ossia di “passare in rassegna il proprio cantiere filosofico, per verificare lo stato dei propri concetti e vedere a cosa possano servire”. Ancora una volta, come già ripetutamente è avvenuto in passato, ad esempio in Penser d’un dehors (Seuil 2000) o in Entrer dans une pensée (Gallimard 2012, Entrare in un pensiero, Mimesis 2016), Jullien avverte l’esigenza di riproporre il suo specifico discours de la méthode, ossia di riformulare negli aspetti essenziali la prospettiva peculiare che caratterizza originalmente da cima a fondo tutto il suo lavoro, e che si riflette coerentemente in ogni suo scritto: per lui non si tratta di “presentare il pensiero cinese in modo diretto e frontale”, bensì di “organizzare passo dopo passo il confronto, in modo laterale, attraverso sfasamenti (…) che si intrecciano maglia dopo maglia, de- e ri-categorizzando un concetto dopo l’altro, per formare progressivamente un lessico”, e ancora chiarisce: “Piuttosto che di concetti ben definiti, si tratta di scarti concettuali (…)”. Non si tratta dunque di “comparare”, quanto piuttosto di “organizzare un faccia a faccia tra lingue e pensieri che permetta un loro reciproco squadrarsi, da cui risulti una riflessione (…). Lo specifico dello scarto non è di ordinare, in funzione del Sé e dell’Altro (…) ma di dis-ordinare (…)” al fine di rimettere in tensione il pensiero a partire dalla distanza che avrà aperto”. Lo scopo è, insomma, “riconfigurare il campo del pensabile, pensare da capo, sfruttando le risorse a disposizione dei due versanti, ma svincolandosi tanto dall’uno quanto dall’altro” (pp. 7-9).
Altrove Jullien aveva definito questo suo caratteristico approccio facendo riferimento alla nozione di “eterotopia” di Michel Foucault; a me sembra che un’efficace formula riassuntiva ne avesse offerto a suo tempo Paul Ricoeur, che in un suo memorabile intervento di vari anni fa, l’aveva definita come l’impresa di “penser chinois en français” (“Note sur Du Temps”, in Dépayser la pensée, a cura di T. Marchaisse, Le Seuil 2003, pp. 211-223). Qui esso si dispiega per così dire geometricamente in un impianto sistematico, ossia in un ventaglio di venti opposizioni fra nozioni cinesi e occidentali – Propensione vs. Causalità, Disponibilità vs. Libertà, Obliquità vs. Frontalità, Allusivo vs. Allegorico, Connivenza vs. Conoscenza, e così via – a cui si aggiunge inoltre l’antitesi Situazione/Soggetto, nell’ambito del più generale contrasto Vivere/Essere esplicitato dal titolo, e in riferimento al quale si afferma: “vivere è strategico, nel senso che in esso si libera una capacità operativa da pensare a seconda della situazione affrontata” (p. 207). Un enunciato che si presta a compendiare la più globale propensione di questo discorso, la cui ambizione è, in sostanza, usare le risorse scoperte in tale percorso per “disfare l’opposizione tra il vivere e il pensare”, ossia per dissolverne il dualismo (p. 224).
Questa démarche non mancherà anche stavolta di affascinare il vasto e vario pubblico di raffinati estimatori e di comuni lettori che da sempre segue con partecipe attenzione il lavoro di Jullien; non mancherà d’altronde di attrarre i rilievi critici di coloro che, come Jean Lévi (Réflexions chinoises, Albin Michel 2011), dubitano che la sua “grande narrazione”, incentrata su una struttura dicotomica, giovi a decostruire le grandi dicotomie oppositive, prima fra tutti quella fra Cina e Occidente. Altre e diverse narrazioni, certo, sono possibili: penso, fra i vari esempi che si potrebbero addurre, a quelle di Geoffrey Lloyd in Ancient Worlds, Modern Reflections (Oxford University Press 2004; Grecia e Cina, Feltrinelli 2008) o di Roger Ames e David Hall in Thinking Through Confucius (SUNY 1987), per non citare la speciale strategia ermeneutica di PierCesare Bori, appartata dalle luci della ribalta e ispirata alle modalità esegetiche di antiche tradizioni d’Oriente e d’Occidente e allo stile di pensiero di Simone Weil (Per un consenso etico fra culture, Marietti 1991).
Non si tratta dunque di cercare, secondo una propensione per così dire monoteistica, o per dir meglio monopolistica, un’Unica Grande Narrazione che si pretenda esclusiva. Le narrazioni sono inevitabilmente plurali, poiché, come ci rammentava Hannah Arendt, non l’Uomo, ma gli uomini abitano il pianeta, e quindi la pluralità è l’irrecusabile destino della nostra human condition. In ogni caso, di narrazioni difficilmente possiamo fare a meno, fin dai tempi in cui Erodoto descriveva l’Egitto ai greci avvalendosi continuamente di contrapposizioni. La questione è, semmai, di non trasformarle da mezzi in fini, ossia in acritici schemi prêt-à-porter o in dati assoluti e astratti, secondo una tendenza diffusa riconducibile all’essenzialismo culturale oggi predominante nella comunicazione di massa: si tratta di un pervasivo fenomeno di reificazione del linguaggio per difenderci dal quale le fonti della Cina antica ci offrono fresche e vitali risorse critiche. Come ci rammenta uno dei testi più audacemente e beffardamente decostruzionisti che si siano mai visti nella storia umana, il Zhuangzi, in un passo particolarmente caro ad Anne Cheng (La Chine pense-t-elle? Fayard 2009) dovremmo sempre ricordarci che la finalità della nassa è catturare il pesce, non venerare con bigotteria la nassa, e una volta afferrato il pesce, la si può anche buttare.
Per tentare un’adeguata valutazione della narrazione che ci viene qui offerta, dobbiamo dunque riferirci alle finalità specifiche del progetto che dichiara e a cui corrisponde. Essa non è tanto interessata alla “conoscenza della Cina” o a una sua articolata rappresentazione, quanto piuttosto a decostruire e a ricostruire, per il tramite del dispositivo Cina, dell’outil “Chine” che configura, uno speciale discorso filosofico. Come Jullien ben chiarisce, “un rimprovero che talora mi hanno fatto alcuni sinologi dipende dal fatto che non collochiamo il nostro desiderio nello stesso luogo: il mio desiderio non è un desiderio “di Cina”, ma un desiderio che passando per la Cina vi cerca un appoggio per de-solidarizzarmi dalla mia lingua e ricominciare più nitidamente – più radicalmente? – a filosofare” (p. 288).
Per curioso paradosso, questa provocazione tutta filosofica di Jullien a “pensare con la Cina” sembra esser stata soprattutto raccolta dai sinologi che, smentendo la loro nomea di settorialità erudita, hanno seriamente raccolto la sua sfida e ne hanno fatto e ne fanno argomento di approfondite, vivaci e fertili discussioni (ne ho offerto un sintetico quadro ne “L’indifferenza alla felicità nel pensiero della Cina antica: dialogo con François Jullien”, Cosmopolis I,2/2006, www.cosmopolisoline.it, e si vedano in proposito, ad esempio, le ultime annate del Journal of Chinese Philosophy). Nonostante la fama planetaria acquisita da Jullien, e attestata da prestigiosi riconoscimenti quali il convegno internazionale a lui dedicato dall’Università di Pechino nel 2007 e il premio Hannah Arendt attribuitogli nel 2010, la sua proposta pare invece meno recepita, salvo eccezioni, nell’ambito dei filosofi che sorprendentemente, soprattutto da noi, spesso appaiono alquanto restii a porsi le dense questioni additate dal suo lavoro: ma dove sta la Cina, filosoficamente parlando? Potrà davvero un discorso filosofico che non voglia essere meramente autoreferenziale, che voglia criticamente e autocriticamente riformularsi da fuori, per riprendere il significativo titolo del recente libro di Roberto Esposito (Einaudi, 2016), eludere tale fondamentale terreno di confronto con l’altrove?
Spesso la giustificazione addotta per evitare tale confronto è l’asserita volontà di sottrarsi alle lusinghe di un facile esotismo: un’obiezione a cui Jullien pacatamente quanto nettamente replica nelle ultime pagine del volume:
“Il mio sforzo di sviluppare alcune coerenze del pensiero cinese (…) è proprio il contrario dell’esotismo. Non si tratta di rigettare o di svalutare le coerenze europee che si ridisegnano grazie al confronto con quella alternativa; si tratta piuttosto di riscoprire queste ultime a partire da quel ‘fuori’. (…) Non c’è niente di più ingannevole di quella falsa moneta ideologica che, all’insegna dell’orientalismo e di un appello al vivere, ha fatto prosperare in Occidente il mercato della felicità in un modo che denota soltanto un pensiero incapace, che non è affatto un altro pensiero o un contro-pensiero, né tanto meno un altro possibile del pensiero. Se tengo così tanto alla figura dello “scarto” (…) è perché esso incessantemente rimette la ragione in cantiere”.
Con queste parole, Jullien addita un compito che non è ascrivibile soltanto al suo originale e creativo percorso, bensì una prospettiva che dovrebbe esser fatta propria dall’intera nostra cultura. Non si potrà rimettere la ragione in cantiere se, come già trent’anni fa asseriva Giangiorgio Pasqualotto ne Il Tao della filosofia (Pratiche 1989; Luni 2015), non ci si misurerà dialogicamente e dialetticamente con gli orizzonti del pensiero cinese, orizzonti che, come rilevava Giacomo Marramao in Passaggio a Occidente (Bollati Boringhieri 2003), ci dischiudono l’ambito di una razionalità altra rispetto al logos: un’esigenza divenuta drammaticamente ineludibile negli scenari del nostro presente. Ma questo compito per potersi effettivamente concretare abbisogna di una radicale riformulazione dei rapporti fra filosofia e sinologia che, nonostante le fertili sollecitazioni di Jullien e la ricchezza di tanti altri contributi degli anni recenti, rimane in larga misura inadempiuta. Occorrerebbe che la sinologia ritrovasse in pieno, rispetto alla filosofia, il ruolo euristico che essa rivestiva ai tempi di Leibniz e di Voltaire: ma la rigida compartimentazione attuale delle discipline accademiche sembra, in tal senso, un ostacolo più cospicuo e insormontabile di quanto non sia la distanza di pensiero e di linguaggio fra le culture. Per tentare di rimuoverlo, occorrerebbe uno spazio di conversazione intellettuale condiviso che avesse l’audacia di sperimentare, come Jullien già suggeriva in Procès ou création, all’inizio della sua avventura nell’eterotopia cinese, e come già da tempo per altri versi propone Heiner Roetz (Mensch und Natur im Alten China, 1984), il progetto critico e autocritico di un illuminismo rivisitato, finalmente non più soltanto eurocentrico.
AMINA CRISMA
(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)