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In collaborazione con la rivista Inchiesta (www.inchiestaonline.it) diffondiamo dal numero speciale della rivista “Mondo Cinese” n.158, aprile 2016, Africa e Cina insieme cambieranno il mondo? l’editoriale scritto da Antonella Ceccagno e Sofia Graziani, docenti dell’Università di Bologna.
1. AFRICA E CINA: VECCHIE E NUOVE CONCETTUALIZZAZIONI
Negli ultimi quindici anni la Cina ha accresciuto notevolmente la propria presenza in Africa in termini di investimenti, aiuti, e attivismo diplomatico e culturale. Oggi è il principale partner commerciale e investitore in Africa, e uno dei principali donatori internazionali.
Questa presenza si è concretizzata con la cosiddetta ‘going out strategy’ (zouchuqu) che a partire dai primi anni 2000 ha spinto numeri crescenti di imprese cinesi, e soprattutto quelle impegnate nell’estrazione di risorse naturali, a investire all’estero.
Gia’ nel 2003, internazionalizzazione e diversificazione nell’approvvigionamento di petrolio erano diventate priorità nazionali per il governo cinese e questo ha portato a una crescente importanza dell’Africa come fornitrice di petrolio alla Cina[1].
Contemporaneamente, nuovi progetti di cooperazione tra la Cina e l’Africa venivano siglati. Dal 2000, la Cina e la maggior parte dei paesi africani si riuniscono infatti periodicamente nel Forum on China–Africa Cooperation (FOCAC) che costituisce la cartina di tornasole sull’evoluzione dei rapporti di cooperazione tra la Cina e i paesi africani, ma anche la principale vetrina diplomatica dove vengono messe in mostra le ideologie che accompagnano questa cooperazione (si veda Strauss in questo volume).
La crescente presenza cinese in Africa è stata interpretata in modi diversi nel corso degli ultimi quindici anni. In un primo tempo sono prevalse le interpretazioni che sottolineavano l’eccezionalità di tale presenza. Da parte cinese, strateghi e leader politici hanno proposto il cosiddetto ‘modello cinese’ come eccezionale in quanto particolarmente adeguato ai contesti africani, sia in termini di legami storici che di visione dello sviluppo economico[2]. Questa retorica è stata fatta propria anche da un certo numero di leader africani – si vedano ad esempio le dichiarazioni entusiaste del ministro zambese per il commercio internazionale sul modello imprenditoriale cinese nel video della BBC Storyville, when China met Africa.
Da parte occidentale, l’eccezionalità è stata teorizzata mettendo in luce soprattutto gli interessi economico-energetici legati a strategie di sviluppo elaborate a livello centrale cinese[3].
La relativa simultaneità tra il momento in cui la Cina diventava importatrice netta di petrolio e altre materie prime e il debutto internazionale delle multinazionali cinesi – in un modo o nell’altro legate al governo cinese – ha spinto molti a parlare di una offensiva cinese in Africa. Alcuni studiosi si sono chiesti se i modi della presenza cinese in Africa potessero essere definiti neo-coloniali[4], e l’interpretazione neo-colonialista è poi prevalsa tra i media occidentali. Questa lettura è basata sull’assunto che la presenza cinese in Africa sia frutto di una razionalità economica cinese unitaria, pianificata a livello centrale e priva di sbavature[5].
I limiti delle interpretazioni prevalenti
Quello che queste interpretazioni hanno in comune, è un approccio da ‘Cina in Africa’, cioè un approccio che sostanzialmente considera l’Africa come mero terreno di gioco dove la strategia cinese può dispiegarsi. Il protagonista indiscusso, quello che detta le condizioni, è la Cina. Gli africani non vengono riconosciuti come attori con ruoli di primo piano tanto quanto i cinesi[6]. L’Africa è solo ‘ciò di cui si parla, e ciò in nome di cui si parla’[7]. Il punto di vista africano è ampiamente assente.
Tuttavia, focalizzando esclusivamente l’attenzione sulla Cina si ricade nei stanchi cliches dell’Africa come continente passivo[8]. Questo approccio, che non riconosce l’agency africana, secondo alcuni studiosi, è la conseguenza del disprezzo per le voci africane e cinesi sulle relazioni tra Africa e Cina, che nei fatti permette alla prospettiva occidentale di dominare il discorso[9].
Inoltre, ‘Africa’, ‘Cina’ e ‘Asia’ tendono ad essere declinate al singolare, e trattate come se fossero realtà omogenee[10].
Il nuovo focus sull’agency africana
Più recentemente, tuttavia, i limiti di questi approcci sono diventati visibili. Cresce il numero di studi che si focalizzano su alcuni paesi africani specifici e mettono in luce il ruolo di governi e altri attori politico-economico-sociali. Gli studi inclusi in un recente volume – significativamente intitolato Africa and China, how Africans and their Governments are Shaping Relations with China – ad esempio, offrono analisi dettagliate delle economie politiche di Nigeria e Angola, due paesi dove la presenza economica cinese è forte. Gli studiosi che hanno contributito al volume cercano di capire come gli africani e i loro leader politici diano forma, tanto quanto i cinesi, alle interazioni nei paesi studiati.
Dal punto di vista concettuale queste analisi attingono prevalentemente alle teorizzazioni di lunga data sulle caratteristiche degli stati neo-patrimoniali. I paesi africani, infatti, sono da tempo analizzati come la quintessenza dei regimi neo-patrimoniali, cioè sistemi di dominazione personalizzati – e intrinsecamente instabili- dove chi governa usa le risorse statali per ottenerne benefici personali e per mantenere rapporti clientelari (si veda anche Ian Taylor in questo volume)[11].
All’interno di questa cornice interpretativa, Lampert e Mohan definiscono il tipo di relazione che intercorre tra le élites africane in Ghana e Nigeria e gli imprenditori cinesi come un rapporto tra patronus e clientes, dove i cinesi stanno nella rischiosa posizione di clientes (si veda Ceccagno in questo volume) [12]. Ian Taylor situa le relazioni tra cinesi e nigeriani nel contesto delle relazioni di potere in Nigeria e analizza la corruzione in questo paese in termini di prebende ottenute attraverso accordi all’interno dell’élite politica[13]. Il nuovo approccio permette quindi di mostrare come le élites politico-economiche indirizzano, limitano, sviano, potenziano, o addirittura possono anche far fallire gli obiettivi degli investitori esteri – e non solo cinesi- attivi in Nigeria.
Modello Angola o costruzione dello stato angolano?
Il cosiddetto ‘modello Angola’ è forse la modalità di interazione tra stati africani e Cina più conosciuto. Si tratta del modello ‘risorse naturali in cambio di infrastrutture’ dove linee di credito per lo sviluppo infrastrutturale vengono garantite attraverso le risorse naturali (si veda Fiori in questo volume).
A prima vista, questo può apparire il modello che maggiormente evidenzia la relativa mancanza di agency africana: come ci ha mostrato la stampa internazionale, i cinesi hanno recentemente costruito in Angola intere città chiavi-in-mano, modellate sulle grandi e anonime città cinesi[14].
Risultano quindi particolarmente interessanti le analisi di Lucy Corkin che mette in luce le varie e molte forme in cui il governo angolano, negli ultimi anni, ha saputo giocare a proprio vantaggio ‘la carta cinese’. In una condizione di debolezza strutturale all’interno, il governo angolano ha saputo usare finanziamenti agevolati e commercio di materie prime con la Cina per rafforzare la propria posizione in rapporto alle opposizioni interne sia dal punto di vista della sovranità legale – in quanto il commercio internazionale di per se’ implica un riconoscimento da parte del mondo esterno –che della sovranità commerciale, come recipiente di rendite economiche che derivano dalle transazioni internazionali[15] .
Corkin mostra come il rapporto con la Cina abbia poi fatto da volano al moltiplicarsi degli accordi con USA e alcuni paesi europei, e abbia anche ammorbidito l’atteggiamento del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale nei confronti dell’Angola. A questo punto l’Angola è stata in grado di limitare la propria dipendenza dalla Cina.
Insomma, secondo Corkin, ‘esempi dal settore petrolifero angolano suggeriscono che il governo angolano è riuscito negli ultimi anni a manipolare le relazioni commerciali in maniera tale che i maggiori benefici economici vanno al governo stesso, invece che alla Cina o altri attori stranieri’[16].
Stati frammentari di teorizzazione
Dunque, negli ultimi anni alcuni studiosi hanno saputo collocare le interazioni tra Africa a Cina nei contesti nazionali socio-economici specifici, focalizzandosi su dinamiche concrete e localizzate. Cresce il numero di studiosi che si sforza di evidenziare il rapporto dinamico tra condizioni strutturali e agency, mettendo anche in evidenza come l’agency politica e sociale sia basata su interessi corporativi e di classe[17].
Nel complesso tuttavia lo sforzo di guardare attraverso lenti diverse la presenza dei cinesi – tra gli altri attori – in Africa appare ancora nella sua fase iniziale. Quello che resta incompiuto, è lo sforzo di collegare il locale con il globale.
Gli studi critici su globalizzazione e spazialità dei processi globali mettono chiaramente in guardia dal guardare alle dinamiche che hanno luogo in località specifiche con la lente del ‘nazionalismo metodologico’, presupponendo cioè che esistano processi capitalisti confinati all’interno di uno specifico stato-nazione[18]. Da tempo infatti è stato messo in chiaro che il capitale contemporaneo, caratterizzato da regimi di accumulazione flessibile, negozia l’espansione delle proprie frontiere in modi che includono ma allo stesso trascendono lo stato-nazione[19]. Di conseguenza, quelle che potrebbero a prima vista sembrare condizioni locali sono invece costantemente rimodellate in funzione del loro posizionamento all’interno di network di potere sia nazionali che globali [20].
C’è quindi bisogno di ricerca che si focalizzi sui diversi modi in cui diversi attori – africani e non, élites e strati popolari-, sono colpiti, implicati o sono addirittura il motore di dinamiche che sono in parte originate nei contesti nazionali e in parte, invece, li trascendono.
Inoltre, seppure sia evidente che le élites politico-economiche giocano ruoli chiave nella maggioranza dei paesi africani, è tempo che gli studiosi mettano in evidenza anche l’agency di altri attori sociali.
2. AIUTI, RETORICA E SOFT POWER NELLA LETTERATURA SUI RAPPORTI SINO-AFRICANI
Uno dei temi emergenti nella letteratura sulla presenza della Cina in Africa (collegato al tema della percezione dell’agency africana) riguarda il dispiegarsi del soft power cinese mediante gli aiuti e, soprattutto, la retorica politica.
Nell’ultimo decennio la Cina ha fatto considerevoli passi in avanti nell’utilizzare una varietà di strumenti politici, culturali ed economici per promuovere un’immagine positiva a livello internazionale e attirare l’attenzione dei paesi in via di sviluppo.
Per quanto la diplomazia pubblica, specialmente quella culturale, sia lo strumento principale della strategia di costruzione del soft power cinese nel mondo, in Africa l’assistenza allo sviluppo riveste un ruolo cruciale. Secondo Hongyi Lai, gli aiuti all’estero, pur essendo una componente del potere economico e l’elemento del potere duro, se usati in modo appropriato possono rafforzare l’immagine, l’influenza e l’attrazione internazionale di una nazione e, quindi, il suo soft power[21]. Joshua Kurlantzick afferma che la Cina percepisce il soft power come “qualsiasi cosa al di là dell’ambito militare e della sicurezza, includente non solo la cultura popolare e la diplomazia pubblica ma anche le leve economiche e diplomatiche più coercitive come aiuti allo sviluppo, investimenti e la partecipazione alle organizzazioni multilaterali”[22].
Inoltre, come sottolineato da più parti, la politica cinese rimane prevalentemente ad hoc e reattiva, volta a migliorare l’immagine della Cina all’estero piuttosto che a esportare valori e modelli di sviluppo[23]. Infatti, è proprio in risposta al diffondersi in Occidente (soprattutto negli USA) della percezione dell’ascesa cinese come minaccia sul piano politico e economico all’ordine internazionale e delle accuse di “neocolonialismo” mosse in relazione alla crescente presenza economica cinese in Africa che il concetto di soft power è diventato popolare in Cina e l’élite intellettuale e i leader cinesi si sono resi conto della sua importanza per coltivare un’immagine più positiva della Cina all’estero[24].
L’Africa è particolarmente importante da questo punto di vista perché è vista dai cinesi come testing ground per perfezionare l’arte del soft power e coltivarlo presso la comunità internazionale[25]. Numerosi studiosi concordano sul fatto che gli aiuti (soprattutto quelli nei settori più marcatamente sociali) costituiscono lo strumento principale della strategia di promozione del soft power cinese in Africa[26].
Gli aiuti allo sviluppo elargiti da Pechino agli stati africani sono aumentati dalla fine degli anni Novanta, in modo particolare dal 2006 quando nell’ambito del Summit del FOCAC, tenutosi a Pechino, il governo cinese si è impegnato a raddoppiare in tre anni l’assistenza all’Africa. Parallelamente, l’assistenza cinese si è andata diversificando: agli investimenti nei settori più tradizionali (progetti nelle infrastrutture), sono stati affiancati programmi di cooperazione tecnica, aiuti umanitari, fornitura di servizi medici/sanitari, e formazione delle risorse umane, un settore quest’ultimo che ha ricevuto particolare attenzione nell’ambito del FOCAC IV nel novembre 2009[27]. Nell’ottica cinese, tali investimenti hanno il duplice obiettivo di favorire l’espansione delle aziende di stato cinesi e, allo stesso tempo, aumentare l’attrattiva della Cina in Africa, mediante la promozione di contatti e iniziative “people-to-people” (minjian) che possano, in ultima analisi, facilitare il raggiungimento degli interessi strategici cinesi. Come mostra un recente studio, gli aiuti nell’istruzione sono, infatti, concepiti come parte integrante della diplomazia pubblica cinese[28]. Secondo Deborah Brautigam, “la Cina ha usato gli aiuti sia come forma di scambio che somiglia all’antica pratica imperiale del tributo, sia come espressione moderna del soft power, ovvero come uno strumento di diplomazia e come un mezzo per raggiungere obiettivi politici, strategici ed economici”[29].
Dunque, la Cina investe negli aiuti all’Africa nella speranza di stabilire e consolidare relazioni positive (commerciali e politiche) con i paesi africani e, allo stesso tempo, accrescere la credibilità di Pechino presso la comunità internazionale. È interessante notare qui come, pur avendo generato reazioni negative tra i donatori tradizionali e i gruppi della società civile per l’aderenza a principi quali la non-interferenza e la non condizionalità, l’espansione cinese nel campo dell’assistenza allo sviluppo in Africa stia offrendo – come mostrano Urbina-Ferretjans e Surender in questo volume – un approccio alternativo generalmente ben accolto dai leader africani e stia iniziando ad avere un certo impatto sulle idee e sulle attività occidentali a vari livelli. La pressione esercitata dalla Cina ha infatti portato i donatori tradizionali a giustificare il loro approccio o a rivederlo.
Nella promozione del soft power cinese attraverso gli aiuti, particolare rilevanza assume la retorica politica. Si tratta di un aspetto che sta ricevendo sempre maggiore attenzione nella letteratura specialistica sui rapporti tra Cina e Africa per il ruolo che gioca sia sul piano bilaterale che nell’arena internazionale.
Come sottolinea Hongyi Lai, il discorso politico ufficiale è uno degli strumenti chiave utilizzato dal governo cinese per coltivare il proprio soft power nel mondo[30]. In questo ambito, di vitale importanza sono i concetti di “mondo armonioso” (hexie shijie) e di “ascesa/sviluppo pacifico” (heping jueqi/fazhan) formulati dalla dirigenza cinese, ma anche l’idea stessa di cooperazione sud-sud tra paesi in via di sviluppo[31]. Gli aiuti sono presentati dalla Cina come una manifestazione dello spirito di benevolenza e solidarietà. Come scrivono Alden e Alves, “the evocation of solidarity politics is carefully employed to suggest a shared sense of identity as fellow third world states”[32].
D’altra parte, l’impegno cinese nell’assistenza all’Africa è incorniciato sul piano retorico all’interno di due più ampi discorsi interconnessi tra loro: l’uno che trasmette un insieme di principi etici su cui si fonda la cooperazione sud-sud tra pari, quali la solidarietà, il mutuo beneficio, l’amicizia, l’aiuto non condizionale risalenti al periodo maoista; l’altro che enfatizza il concetto di soft power, concetto che allude alla competizione internazionale tra le nazioni[33]. La giustapposizione di questi due discorsi riflette chiaramente la tensione tra l’identità autoimposta della Cina quale paese in via di sviluppo e il suo status di potenza globale.
In un recente studio Lycy Corkin afferma che la retorica politica cinese rispetto ai rapporti della Cina con l’Africa è significativa per un duplice motivo: da una parte, è un importante strumento utilizzato da Pechino per distinguere il proprio approccio dalle pratiche occidentali in Africa e, più in generale, nel mondo in via sviluppo; dall’altra, è significativa in quanto rappresenta una manifestazione del crescente interesse della Cina verso l’uso del soft power per coltivare lo status di “grande potenza” (daguo)[34].
Julia Strauss afferma nel suo contributo dedicato alla continuità storica nella retorica (vedi Strauss in questo volume) che il discorso cinese sull’Africa tende a evidenziare il ruolo della Cina quale attore internazionale profondamente morale (oggi come ieri) e a delineare per l’Africa un possibile percorso (o modello) di sviluppo che, quantomeno implicitamente, è considerato come alternativo (e forse migliore) rispetto a quello offerto dall’Occidente (o, all’epoca, dall’Unione Sovietica).
La retorica cinese tende a suggerire, seppur implicitamente, il tema del confronto con l’Occidente quando, ad esempio, enfatizza il principio del mutuo vantaggio e gli aspetti peculiari dell’esperienza di sviluppo cinese ma anche l’idea di un passato comune segnato da analoghe sofferenze (sottosviluppo e colonialismo) e, al contempo, il fatto che la Cina non ha avuto a che fare con la storia della colonizzazione in Africa[35].
Il costante richiamo ai trascorsi storici che hanno segnato le relazioni sino-africane è una caratteristica peculiare della diplomazia cinese in Africa, come mostrano recenti studi[36]. Il passato viene richiamato laddove serve a rivendicare una continuità di intenti e rassicurare i leader africani del fatto che la Cina, benché sia ormai un’emergente potenza globale, mantiene l’identità di paese in via di sviluppo e la sua presenza nel continente africano non sfocerà nello sfruttamento o in qualche forma di colonialismo, nonostante i legami tra Cina e Africa siano di fatto sempre più basati su interessi economici. Il passato, dunque, in funzione del presente: la storia come strumento per giustificare i rapporti odierni e presentare la Cina come eccezionalmente adatta per assistere l’Africa.
Allo stesso tempo, secondo gli studiosi Alden e Alves, la storia avrà sempre meno importanza nel forgiare le reazioni africane. Infatti, i governi africani sono consapevoli delle oscillazioni che caratterizzano l’esperienza storica dei rapporti sino-africani e cercheranno di trarre beneficio dall’impegno cinese in Africa, volgendo la retorica a proprio vantaggio[37]. Il caso dell’Angola studiato da Lucy Corkin è esemplificativo a questo proposito[38].
Nuovi percorsi di ricerca sono del resto suggeriti anche nella letteratura più recente su soft power in Africa. L’attenzione è chiaramente ancora una volta sul punto di vista africano e la percezione delle azioni cinesi nei diversi contesti nazionali[39]. Se consideriamo che la promozione del soft power di una nazione implica un rapporto dinamico tra un agente e un soggetto destinatario, allora – scrive Lukasz Fijałkowski – la crescita e il successo della strategia cinese in Africa dipende in larga parte dagli stati africani. Il punto di vista africano diventa dunque centrale nella comprensione del soft power cinese in Africa, come mostra anche il contributo di Heidi Østbø Haugen in questo numero. Al contempo, una comprensione profonda delle interazioni tra Cina e Africa non può prescindere dalla presa in esame dei diversi attori cinesi (agenzie governative, imprese) coinvolti nei rapporti con i paesi africani ai diversi livelli. Secondo Fijałkowski una delle sfide cui si trova di fronte Pechino nel suo tentativo di promuovere un’immagine positiva in Africa e nel mondo è proprio la presenza di una molteplicità di attori che mossi da interessi e obiettivi spesso divergenti e in competizione tra loro rischiano di minare la coerenza della strategia di costruzione del soft power cinese.
3. SINOSSI DEL VOLUME
La raccolta di articoli proposta in questo numero si apre con il contributo di Ian Taylor che affronta il tema cruciale del ruolo delle economie emergenti in Africa. I cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India Cina e Sudafrica) sono stati caricati di valenze salvifiche dalle élites intellettuali africane che li vedevano come antesignani di una nuova era dove il sistema neoliberista dominante sarebbe stato rovesciato.
Ian Taylor mostra come quelle speranze fossero malriposte. Oggi come ieri, le economie africane rimangono sostanzialmente imbrigliate nel ruolo di produttori di materie prime, integrati e allo stesso tempo strutturalmente dipendenti – in maniera nettamente sfavorevole -dalle economie dei paesi maggiormente sviluppati. E i BRICS partecipano tanto quanto gli altri investitori internazionali allo ‘sfruttamento attraverso rapporti produttivi capitalistici e [al]l’appropriazione dei surplus economici africani [che], caratterizza le economie politiche del continente’. Il contributo di Taylor spiega che le aspettative che i nuovi capitali investiti in Africa avrebbero avuto effetti benefici sul lavoro in Africa sono state largamente disattese perché la crescita in (parte dell’) Africa è avvenuta sotto forma di interessi convergenti tra multinazionali straniere ed élites politico-economiche africane nell’ambito di regimi neopatrimoniali, e questo ha precluso uno sviluppo sostenibile su larga scala. Le conclusioni di Taylor sono quindi impietose: i BRICS non hanno affatto sollevato i paesi africani dalla storica condizione di sottosviluppo; anzi, con la loro presenza in Africa la dipendenza strutturale dei paesi africani rischia di farsi maggiormente profonda.
La presenza cinese in Africa è il risultato di decenni di investimenti nel costruire relazioni bilaterali attraverso l’assistenza, il commercio e lo scambio culturale. Il saggio di Guido Samarani esamina gli aspetti storici della politica cinese verso l’Africa, rintracciando nel tardo periodo Qing e nell’era repubblicana lo stabilimento e lo sviluppo dei primi significativi contatti grazie alla migrazione cinese. Samarani mostra inoltre come dal 1949 alla fine del periodo maoista i rapporti tra Cina popolare e Africa abbiano risentito di fattori e dinamiche originate all’esterno del continente africano, quali la rottura e la rivalità tra i due giganti socialisti, nonché la contesa tra Pechino e Taibei e, più in generale, le logiche della Guerra Fredda che hanno condizionato pesantemente l’approccio politico/strategico della RPC verso l’Africa.
Il focus su tre casi-studio (Egitto, Sudafrica, Tanzania) risulta particolarmente interessante perché permette di mostrare le differenze nell’approccio di Pechino e di evidenziare le radici storiche delle diversità che caratterizzano le relazioni bilaterali fra la Cina e diversi Stati africani. Nello stesso tempo, il contributo di Samarani è importante perché rivela una serie di sviluppi che sembrano anticipare le dinamiche odierne quali l’afflusso di lavoratori cinesi nel continente e il ricorso agli aiuti per obiettivi politici. L’intreccio nell’azione cinese in Africa tra assistenza economica, commercio, scambi culturali e relazioni politiche costituisce altresì un aspetto di cruciale importanza anche per la comprensione delle dinamiche contemporanee.
L’articolo di Barbara Onnis fornisce un’analisi della politica cinese verso l’Africa a partire dall’avvio delle riforme di Deng Xiaoping ad oggi, con particolare attenzione al periodo post-Guerra Fredda. Se negli anni Ottanta la scelta di porre la modernizzazione economica al centro dell’agenda politica comportò un rafforzamento dei rapporti con i paesi sviluppati e una conseguente diminuzione d’importanza dell’Africa per Pechino, le pressioni del mondo occidentale e il contesto di isolamento internazionale in cui si trovò la Cina dopo i fatti di Tian’anmen posero le basi per l’intensificarsi dell’impegno diplomatico cinese nel continente africano negli anni Novanta. Nel ricostruire le tappe principali di questo percorso di riavvicinamento dai primi anni Novanta a oggi, l’articolo evidenzia come gli interessi in ballo si siano evoluti e siano andati ben oltre la sfera economico-commerciale, includendo aspetti ideologici, politici e legati alla sicurezza. Nello spesso tempo, Onnis evidenzia le novità più recenti nella politica cinese verso l’Africa, a partire dalla rivalutazione degli interessi legati alla sicurezza come prioritari al ripensamento del concetto di “non interferenza”, e mostra come alcuni punti cardine della retorica e della politica cinese in Africa stiano diventando sempre meno praticabili. Questo articolo è importante anche perché analizza la rinnovata importanza attribuita all’Africa nella politica estera cinese post-1989 nel contesto dei cambiamenti dell’ordine internazionale e mette in evidenza come tali cambiamenti abbiano offerto alla Cina nuove opportunità per proiettare all’esterno la propria immagine di “grande potenza responsabile” e rafforzare il suo peso internazionale.
L’articolo di Julia Strauss affronta il tema della continuità storica nella retorica cinese. In particolare, si interroga sul perché la retorica dell’impegno cinese in Africa sia rimasta sostanzialmente immutata dai tempi di Mao – quando invece quasi ogni altro aspetto del maoismo è stato ripudiato -, e in un momento storico in cui il coinvolgimento cinese in Africa cresce in maniera esponenziale e si fa sempre più complesso. La risposta è che il legame con il passato maoista e il richiamo ai vecchi principi di non-interferenza, di non condizionalità, amicizia, e comune lotta al capitalismo oppressore non sono casuali, e sono invece da ricollegare all’intenzione di continuare a propagare una visione della Cina come un attore internazionale morale, la cui azione cioè è giustificata da spinte etiche. Il risultato è una rappresentazione della Cina come tradizione e modernità, come diversa e migliore (di ogni altro attore internazionale), come nazionale e internazionale. Strauss mette in evidenza come questa retorica abbia sostanzialmente la funzione di sciogliere ansietà contemporanee cinesi sul posto della Cina nel mondo, in particolare nel contesto di un crescente nazionalismo dal basso. Questo articolo ci rimanda a un tema, quello del discorso e del potere della parola di forgiare le percezioni sul ruolo della Cina in Africa che – come mostra Lucy Corkin – è cruciale per la comprensione delle dinamiche attuali[40].
Antonio Fiori ci permette di osservare la Cina nella sua ‘spasmodica ricerca di una posizione di sicurezza nei mercati energetici e minerari’. Grazie ad una serrata diplomazia delle risorse, Beijing conta ormai su importanti fonti di approvvigionamento nei paesi africani più ricchi di dotazioni naturali. Il commercio bilaterale con questi paesi si basa sull’estrazione di petrolio, minerali e altre materie prime in cambio di beni lavorati. In dialogo con il contributo di Taylor – che mostra come i BRICS siano coinvolti tanto quanto gli altri in un ordine mondiale strutturalmente basato sullo sfruttamento delle risorse africane principalmente a vantaggio degli investitori esteri-, Fiori ci racconta delle recenti aspirazioni della Cina (rese note all’interno del FOCAC del dicembre 2015 a Johannesburg) a diventare un polo veramente alternativo a Europa e USA in quanto portatore di nuove modalità di partnership e un nuovo e più equo ordine economico e politico tra la Cina e i paesi africani. Sarà interessante capire se il nuovo ordine offerto ai media a Johannesburg sia semplice retorica. Se invece non lo fosse, sarà interessante vedere quali rivoluzionari tipi di interscambio prevarranno.
Anche nel contributo di Fiori emerge il tema dell’agency di attori diversi dalla Cina. Soffermandosi sulle difficoltà di portare a termine un progetto per l’estrazione del ferro in Gabon, infatti, Antonio Fiori mostra come accordi già siglati tra imprese cinesi e élites africane possano essere messi in discussione da altri attori, che nel caso in questione sono alcune ONG internazionali e locali, con l’appoggio della Banca Mondiale.
Il contributo di Marisa Siddivo’ mette in discussione il diffuso assunto secondo cui le multinazionali cinesi sarebbero votate al successo, soprattutto grazie ai loro legami con lo stato cinese. L’articolo infatti mostra come il tasso di fallimento degli investimenti esteri delle imprese cinesi sia valutato tra i più alti del mondo. Siddivo’ ci conduce all’interno del durissimo dibattito interno cinese – che ha tenuto banco negli ultimi due anni – sulle ragioni di questi insuccessi. In un primo tempo si è teso ad addebitare i fallimenti ai contesti nazionali in cui le imprese cinesi operano: barriere normative, emendamenti alle leggi sugli investimenti stranieri, conflitti e proteste sociali (con esplicite chiamate in causa delle ONG). Più recentemente il dibattito si è invece spostato sulle cause endogene: sono stati chiamati in causa la scarsa preparazione dei manager cinesi e la cattiva reputazione internazionale della Cina. L’articolo di Siddivo’ ricopre un ruolo importante all’interno di questo numero monografico anche perchè getta ombre documentate sulla percezione dominante delle imprese cinesi come compattamente invincibili. Siddivo’ ci permette dunque di vedere difficoltà e limiti delle imprese cinesi (che operano nei vari contesti africani) nel venire a patti con condizioni strutturali e attori locali
Imprenditoria cinese e agency degli attori locali nei paesi africani sono temi affrontati anche nel contributo di Antonella Ceccagno che discute criticamente la letteratura recente sulla presenza cinese in numerosi paesi africani in termini di impresa e lavoro.
L’articolo analizza la varietà di business cinesi presenti in Africa, chiarendo che le grandi imprese di stato cinesi sono solo una parte di una presenza molto più articolata e mostrando come per imprese grandi e piccole l’orientamento al profitto tenda ad avere la meglio su ogni altra considerazione.
L’articolo documenta i modi in cui le imprese cinesi violano apertamente le pur modeste normative a protezione del lavoro e i diritti dei lavoratori. Queste pratiche vengono analizzate nel contesto del deterioramento generalizzato dei rapporti tra capitale e lavoro in un’epoca neoliberista. Inoltre l’articolo discute dei processi di localizzazione delle imprese cinesi, spiegando come – inaspettatamente – sia la feroce concorrenza inter-cinese a spingere verso un’accelerazione nella localizzazione delle imprese nei paesi africani.
L’articolo presenta gli studi più recenti sull’imprenditoria cinese in Africa dove lo spazio di azione per gli imprenditori cinesi è definito dalle modalità di scambio tipiche dei regimi neo-patrimoniali. Mostra però come i regimi clientelari siano visti in maniera diversa e abbiano effetti profondamente diversi sui manager delle grandi imprese cinesi e sui piccoli imprenditori cinesi che rischiano di soccombere.
D’altra parte, come argomenta Thomas Rosenthal nel suo articolo dedicato alla penetrazione cinese in Africa nel settore ICT e digitale, la cooperazione sino-africana ha portato benefici a entrambe le parti. L’articolo di Rosenthal documenta, infatti, come la Cina (attraverso l’iniziativa diplomatica e l’internazionalizzazione delle sue imprese) abbia contribuito in modo significativo alla digitalizzazione dell’Africa, permettendo ai paesi africani di colmare (seppur in maniera molto diversificata da paese a paese) il ritardo nell’accesso alle più avanzate tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Nello stesso tempo, mostra come il continente africano rappresenti un mercato di sbocco importante per le aziende cinesi, oltre che un “terreno di studio” prima di raggiungere altri mercati dove la competizione è più elevata. Questo contributo è importante anche perché ci rimanda, indirettamente, al tema della diffusione del soft power cinese: se da un lato, infatti, i marchi cinesi dell’elettronica di consumo quali, ad esempio, Lenovo e Huawei sono diventati sempre più noti fuori dalla Cina, dall’altro – come scrive Rosenthal – le tecnologie cinesi possono “fungere da vettore di contenuti, opinioni e valori cinesi”.
Il contributo di Marian Urbina-Ferretjans and Rebecca Surender è dedicato alla politica cinese di aiuti nel settore sociale. Le studiose si interrogano sull’influenza o meno nel mondo occidentale del modello cinese di sviluppo, toccando così un tema molto discusso in Occidente e cruciale per la comprensione delle dinamiche globali e del dispiegarsi del soft power della Cina in campo internazionale[41]. In particolare si interrogano sull’impatto che le idee sul welfare alla base dell’assistenza allo sviluppo cinese in Africa hanno sui donatori tradizionali, e quindi sulla loro possibile diffusione fra le potenti istituzioni internazionali. Il saggio evidenzia come l’approccio all’assistenza della Cina, a differenza di quello occidentale, poggi su idee che stabiliscono un legame molto stretto tra sviluppo sociale e crescita economica. Secondo Urbina-Ferretjans e Surender l’approccio della Cina se da un lato offre un modello alternativo ai beneficiari degli aiuti, dall’altro sembra stia introducendo “pressioni competitive” all’interno del sistema internazionale, inducendo i donatori tradizionali a giustificare il loro approccio o a rivederlo. Per quanto embrionale, questo processo è estremamente interessante e significativo per la comprensione della politica sociale internazionale e del ruolo della Cina quale attore globale. Esso mostra, infatti, come l’agency cinese in Africa abbia un impatto sulla comunità internazionale.
Nonostante gli studenti africani che studiano in Cina siano sempre più numerosi e a loro venga affidato un ruolo delicato nell’ambito della ricerca cinese di potere immateriale, la ricerca empirica sull’argomento è davvero scarsa. Il contributo di Haugen è quindi particolarmente importante. Lo è anche perché indaga sull’agency cinese (governativa, e quindi top-down) che attrae studenti africani per accrescere il proprio appeal ideologico nei confronti dei paesi di provenienza degli studenti, e sulla contro-agency degli studenti africani (individuale, e dal basso) che non trovano in Cina quello che si aspettavano.
La ricerca empirica di Haugen mostra come le strategie di soft power cinesi calate dall’alto tendano ad entrare in rotta di collisione con altre dinamiche. Tra queste vi sono la marginalità degli studenti stranieri in Cina in un’epoca in cui l’educazione cinese è focalizzata sul profitto, il basso livello di educazione offerta nelle università cinesi; gli interessi dei broker migratori che vendono una Cina diversa da quella che gli studenti poi trovano. Questo approccio è molto interessante perché rimanda alla discussione, particolarmente attuale, su quanto il soft power gestito direttamente dallo Stato possa essere efficace.
Il numero monografico di Mondo Cinese su Africa e Cina si chiude con l’articolo di Rita Fatiguso, che inserisce l’Italia come possibile attore futuro nelle dinamiche tra la Cina e l’Africa. L’articolo infatti affronta il tema delle possibili triangolazioni nei rapporti tra Cina, Italia e Africa, nel settore dei progetti infrastrutturali, evidenziando le possibili ricadute economiche per alcuni attori economici italiani.
L’articolo prospetta un ruolo italiano in Africa, e in particolare nella fascia subsahariana, in collegamento con le strategie di gruppi bancari cinesi presenti in Italia come, ad esempio, Industrial and Commercial Bank of China, che possono rappresentare un ponte finanziario tra Cina e Italia e potrebbero promuovere la presenza delle imprese italiane sottocapitalizzate nei mercati africani, fungendo da avamposto per le opportunità di triangolazione. L’Italia potrebbe cosi essere al centro di un intenso flusso di relazioni tra Cina e Africa.
Attraverso interviste ad operatori economici e analisti, l’articolo mette in evidenza anche i limiti di questa prospettiva, essenzialmente limitata dalla mancanza di strategie italiane chiare e definite.
ANTONELLA CECCAGNO e SOFIA GRAZIANI
[1] L. Corkin, “Understanding Angolan Agency: the Luanda – Beijing Face-Off” in A. Gadzala (a cura di), Africa and China: How Africans and their Governments are Shaping Relations with China, Lanham (Maryland), Rowman & Littlefield, 2015, p. 71.
[2] M. Powell e J. Mohan,”Towards a Critical Geopolitics of China’s engagement with African Development”, Geopolitics, 15 (3), 2010, pp. 462-495.
[3] Secondo Power e Mohan il cosidetto ‘modello cinese’ viene invocato con accezioni diverse a seconda dei casi, intendendo: 1) il modello di sviluppo cosi come ha preso forma in Cina, che viene proposto come particolarmente adeguato a contesti africani dove l’uscita dalla povertà potrebbe avvenire in tempi brevi e con risultati altrettanto sorprendenti di quanto è successo in Cina; e 2) come un modello di interazioni sulla cooperazione allo sviluppo (M. Powell e J. Mohan, “Towards a Critical Geopolitics of China’s engagement with African Development”, cit., 463-464.
[4] A. Tiffen, “The New Colonialism in Africa”, Global Policy, 19 Agosto 2014, www.globalpolicyjournal.com/blog/19/08/2014/new-neo-colonialism-africa/.
[5] A. Kernen, “China Ltd. Un business africain”, Politique africaine, 134, 2014, pp. 5-19.
[6] Ibid.
[7] J. Mohan, “Beyond the Enclave: Towards a Critical Political Economy of China and Africa”, Development and Change, 44 (6), 2013, pp. 1255-1272.
[8] A. Gadzala, “ Introduction’ in A. Gadzala (a cura di), Africa and China, op. cit., pp. xv-xxix.
[9] L. Corkin, Uncovering Africa Agency: Angola’s Management of China’s Credit Lines, Ashgate, 2013.
[10] S. Chan, 2008, citato in J. Mohan, “Beyond the Enclave”, op. cit., p. 1257.
[11] Sul neopatrimonialismo si veda D. Back e M. Gazibo (a cura di), Neopatrimonialism in Africa and Beyond, London, Routledge, 2012.
[12] B. Lampert and G. Mohan, ‘Making space for African Agency in China-Africa Engagements: Ghanaian and Nigerian Patrons Shaping Chinese Enterprise’, in A. Gadzala (a cura di), Africa and China, op. cit., pp. 109-126.
[13] I. Taylor, “The Good, the Bad, and the Ugly: Agency-as-corruption and the Sino-Nigerian Relationship” in A. Gadzala (a cura di), Africa and China, op. cit., pp. 27-44.
[14] D. Benazeraf and A. Alves, “Oil for Housing’: Chinese-built New Towns in Angola”, SAIIA Policy Briefing n. 88, 2014, pp. 1-4.
[15] L. Corkin, Understanding Angolan Agency: the Luanda – Beijing Face-Off”op. cit., p. 66.
[16] Ibid., p. 73.
[17] B. Lampert and G. Mohan, “Making Space for African Agency in China-Africa Engagements: Ghanaian and Nigerian Patrons Shaping Chinese Enterprise”, in A. Gadzala (a cura di), Africa and China, op. cit., pp. 109-126.
[18] A. Wimmer and N. Glick Schiller, “Methodological Nationalism and Beyond: Nation-State Building, Migration and the Social Sciences”, Global Networks, 2 (4), 2002, pp. 301-334.
[19] S. Mezzadra e B. Neilson, Border as Method, or, The Multiplication of Labor, Durham, Duke University Press, 2013; S. Sasken, “Cracked casings. Notes towards an Analytics for Studying Transnational Processes” in J. L. Abu-Lughod (a cura di), Sociology for the Twenty-First Century, Chicago, the University of Chicago Press, 1999, pp. 197-207.
[20] Glick Schiller, Nina and Ayse Çağlar, “Locality and Globality: Building a Comparative Analytical Framework in Migration and Urban Studies”, in Nina Glick Schiller and Ayse Çaglar (a cura di), Locating Migration. Rescaling Cities and Migrants, Ithaca, Cornell University Press, 2011, pp. 60-81.
[21] Hongyi Lai, “Introduction. The soft power concept and a rising China”, in Hongyi Lai and Yiyi Lu (a cura di), China’s Soft Power and International Relations, London, Routledge, 2012, p. 13.
[22] J. Kurlantzick, Charm Offensive: How China’s Soft Power is Transforming the World, New Haven and London, Yale University Press, 2007, p. 6.
[23] Si veda ad esempio, B. S. Glaser and M. E. Murphy, “Soft power with Chinese characteristics: the ongoing debate”, in C. McGiffert (a cura di), Chinese Soft Power and Its Implications for the United States. Competition and Cooperation in the Developing World, Center for Strategic & International Studies, 2009, pp. 10-26.
[24] Hongyi Lai, “China’s cultural diplomacy. Going for soft power”, in Hongyi Lai and Yiyi Lu (a cura di), China’s Soft Power, op. cit., pp. 83-84.
[25] Lucy Jane Corkin, “China’s rising Soft Power: the role of rhetoric in constructing China-Africa relations”, Revista Brasileira de Politica Internacional, 57, 2014 http://www.scielo.br/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S0034-73292014000300049 Secondo il noto africanista cinese He Wenping, l’Africa rappresenta probabilmente il più importante terreno di prova per la promozione del soft power cinese [W. He, “The Balancing Act of China’s Africa Policy”, China Security, 3,3, 2007, pp. 23-40].
[26] L. Fijalkowski, “China’s ‘soft power’ in Africa?”, Journal of Contemporary African Studies, 29 (2), 2011, pp. 223-232; Sheng Ding, “To Build a ‘Harmonious World’: China’s Soft Power Wielding in the Global South”, Journal of Chinese Political Science, 13, 2, 2008, pp. 193-214; J. Kurlantzick, “China’s soft power in Africa”, in Li Mingjiang (a cura di), Soft Power: China’s Emerging Strategy in International Politics, Lanham, Lexington Books, 2009, pp. 165-184. Il nesso tra assistenza cinese e soft power rimane tuttavia una questione controversa. Si veda M. Varral, “Debunking the myth of China’s soft power: Changes in China’s use of foreign assistance from 1949 till the present”, in Hongyi Lai e Lu Yiyi (a cura di), China’s Soft Power, op. cit., pp. 138-169.
[27] Sulla politica cinese di aiuti all’Africa vedi: Y. Samy, “China’s Aid Policies in Africa: Opportunities and Challenges”, in The Round Table: The Commonwealth Journal of International Affairs, 99, 406, 2010, pp. 75-90 e per un’analisi dell’assistenza allo sviluppo cinese nella sanità, Huang Yanzhong “Domestic Politics and China’s Health Aid to Africa”, China: An Intrenational Journal, 12 (3), 2014, pp. 176-198.
[28] Yuan Tingting, “Diploma Serves Diplomacy: China’s ‘Donor Logic’ in Educational Aid”, China: An International Journal, 12 (2), 2014, pp. 87-109.
[29] D. Brautigam, “China’s Foreign Aid in Africa: What Do We Know?”, in R. I. Rotberg (a cura di), China into Africa: Trade, Aid, and Influence, Washington, D.C., Brookings Institution Press, 2008, pp. 201-202.
[30] Hongyi Lai, “Introduction. The soft power concept and a rising China”, cit., p. 2.
[31] W. He, “Overturning the wall: Building China’s soft power in Africa”, China Security, 6 (1), 2010, pp. 63-69.
[32] C. Alden and C. Alves, “History and Identity in the Construction of China’s Africa Policy”, in Review of African Political Economy, 35, 115, 2008, pp. 43-58.
[33] K. King, China’s Aid & Soft Power in Africa. The Case of Education and Training, Oxford, James Currey Publishers, 2013.
[34] L. J. Corkin, “China’s rising Soft Power”, cit.
[35] Per un’analisi dei tentativi della Cina di presentare il proprio approccio come diverso da quello dei donatori tradizionali, si veda C. Alden and D. Large, “China’s Exceptionalism and Challenges of Delivering Difference in Africa”, Journal of Contemporary China, 20, 68, 2011, pp. 21-38.
[36] C. Alden and C. Alves, “History and Identity in the Construction of China’s Africa Policy”, cit.,
[37] Ibidem
[38] L. J. Corkin, Uncovering Africa Agency, op. cit.
[39] Si vedano, ad esempio, L. Fijałkowski, “China’s ‘soft power’ in Africa”, cit., e Sven Grimm, “China-Africa Cooperation: Promises, practice and prospects”, Journal of Contemporary China, 23, 90, 2014, pp. 993-1011.
[40] L. J. Corkin, Uncovering Africa Agency, op. cit.
[41] Sul cosiddetto “modello Cina” si veda la raccolta di saggi a cura di M. Miranda e A. Spalletta, Il modello Cina. Quadro politico e sviluppo economico, Roma, L’Asino d’oro, 2011.
(in collaborazione con www.inchiestaonline.it )