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Giuseppe Dossetti ricordato a Bologna nell’anniversario della sua scomparsa

di Maria C. Fogliaro

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A vent’anni esatti dalla scomparsa di Giuseppe Dossetti (1913-1996) il 15 dicembre è stato presentato e discusso a Bologna − su iniziativa della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna in collaborazione con l’Istituto De Gasperi e l’associazione Zikkaròn, e alla presenza di Davide Conte (assessore al Bilancio del Comune di Bologna) − il volume Giuseppe Dossetti, L’invenzione del partito. Vicesegretario politico della DC 1945-46/1950-51 (Zikkaron 2016), sul quale sono intervenuti due studiosi fra loro molto diversi per profilo biografico e professionale: Carlo Galli (filosofo politico, presidente Fondazione Gramsci Emilia-Romagna) e Paolo Pombeni (storico, direttore Istituto Storico Italo-Germanico di Trento).

Nel libro una parte della complessa vicenda politica e umana di Dossetti è ricostruita partendo dall’analisi rigorosa e minuziosa di testi in larghissima parte inediti − riconducibili al periodo in cui il politico emiliano fu vicesegretario della DC (la prima volta fra il 1945 e il 1946, e la seconda fra il 1950 e il 1951) −, che il curatore del volume, Roberto Villa, nel corso dell’incontro ha precisato di aver attinto da fonti conservate, e fino a oggi mai vagliate, all’Istituto Luigi Sturzo di Roma e molto più negli archivi privati di collaboratori e corrispondenti di Dossetti.

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Si tratta di lettere, relazioni, discorsi, note, interventi e verbali trascritti da riunioni degli organi della DC, appunti − presi da Dossetti, ma anche da Guido Gonella (segretario della DC dal 1950 al 1953) e da Luigi Paganelli (vicesegretario della DC di Modena) −. Insomma, testi strumentali e personali non pensati per la pubblicazione, nei quali il politico democristiano − ha affermato Pombeni − «si apre con una franchezza che oggi è inimmaginabile», come nel caso del continuo rapportare il senso della propria missione politica alla volontà di Dio. Si tratta, quindi, di un contributo prezioso, nel quale tutte le fonti sono state ampiamente annotate e contestualizzate. Un percorso conoscitivo che, fra le altre cose, si sofferma sui rapporti che Dossetti ebbe con De Gasperi, Fanfani, Scelba e altri esponenti DC, e che soprattutto testimonia della visione che egli ebbe dello Stato e del partito, che intese come «luogo in cui gli uomini imparano a convivere condividendo una idea e una interpretazione del mondo». La concezione − ha affermato Pombeni − di un «partito cristiano e non della Chiesa».

Un’idea, quindi, del partito secondo Galli «fortissima», come «luogo in cui la società ritrova se stessa, pensa se stessa, e pone in modo chiaro e formalizzato le domande e orienta le risposte». Una struttura capace perciò di sollecitare il governo a un confronto come minimo alla pari, e nella cui costruzione ideologica e organizzativa Dossetti fu sostenuto da «un fierissimo anticomunismo», pronto a sfidare il PCI su ogni terreno sociale, e da «una fede intemerata nella democrazia». Alla politica, quindi, Dossetti non chiese l’utopia − come spesso è stato sostenuto −, ma un «rinnovamento radicale», che però non venne − afferma Galli citando un testo dell’ottobre del 1951 − perché per l’allora vicesegretario della DC «nessun mutamento è avvenuto dopo il 1945 nella struttura politica e sociale del Paese. (…). Per respingere i Soviet si respinse tutto».

Parole queste che testimoniano come il leader democristiano non solo avesse avuto chiara la situazione internazionale e nazionale a lui coeva, ma fosse stato anche capace di cogliere gli sviluppi futuri della società italiana in assenza di «un radicale rivoluzionario rinnovamento delle strutture politiche, economiche e sociali dello Stato». Il suo ritiro dalla politica attiva per una scelta di vita contemplativa − rassegnando prima le dimissioni dalla direzione della DC (ottobre 1951), e poi dimettendosi da deputato (luglio 1952) − è stato la conferma che lo spazio per attuare una «rivoluzione ispirata ai valori personalistici cristiani» si era chiuso definitivamente. Una scelta che a molti parve allora misteriosa, ma che fu attuata da una figura di altissimo livello, che − come ha affermato Galli − «prese sul serio la politica» e che, pur alla luce di una fede religiosa vissuta con una forza non facile da immaginare, si era impegnata nella politica e nelle sue durezze «come il più laico dei laici».

Una concezione della politica oggi impensabile, naturalmente, e che nondimeno esercita ancora in molti il fascino profondo di una radicale alternativa.

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