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di Maria C. Fogliaro
Chesley B. ‘Sully’ Sullenberger è il pilota dell’Airbus A320-214 che il 15 gennaio del 2009 con una manovra straordinaria salvò da morte ormai certa tutti i 155 passeggeri del volo US Airways 1549, partito dall’aeroporto «La Guardia» di New York con destinazione Charlotte (North Carolina). Con entrambi i motori in blocco a causa della collisione con uno stormo di uccelli a pochi minuti dal decollo, il capitano e il suo copilota, Jeffrey B. Skiles, ignorando le indicazioni provenienti dalla torre di controllo, presero in soli 208 secondi la decisione, mai tentata prima da nessun pilota di linea, che fece di Sullenberger un eroe nazionale: ammarare sul fiume Hudson.
Tutto bene, quindi? Non esattamente. Il National Transportation Safety Board (NTSB) − l’agenzia investigativa USA che si occupa degli incidenti nei trasporti − avviò un’indagine per verificare se la manovra effettuata dal capitano non avesse, in realtà, messo a rischio la vita dei passeggeri e provocato inutilmente la perdita del velivolo. Sul mini-processo davanti alla commissione dell’NTSB e sui fatti che lo hanno immediatamente preceduto è incentrato Sully (USA, 2016, 96’), l’ultimo film diretto da Clint Eastwood, scritto da Todd Komarnicki e tratto dal libro omonimo di Chesley Sullenberger e Jeffrey Zaslow.
Dopo l’incidente e lo spettacolare salvataggio, a dispetto dell’opinione dei passeggeri del volo e della stragrande maggioranza degli americani, la questione che comincia a essere sollevata dalla stampa è: Sully (Tom Hanks) è un eroe o un imprudente? La commissione dell’NTSB pare non avere dubbi sul fatto che si sia trattato di una manovra avventata, poiché − come dimostravano tutte le simulazioni effettuate al computer − poteva essere evitata ricorrendo ad un atterraggio di emergenza in uno degli aeroporti vicini, come segnalato dalla torre di controllo. Certamente, questa posizione è negli interessi della compagnia aerea e dell’assicurazione. Sully si ritrova così solo, insieme a Jeff Skiles (Aaron Eckhart), a dover difendere la propria condotta. E pur nella certezza di aver preso la decisione giusta, l’unica possibile per salvare le vite che erano sotto la sua diretta responsabilità, ritornando a più riprese a quei 208 secondi fatali non riesce a non chiedersi se abbia fatto al meglio il proprio dovere − come testimoniano i suoi intimi dubbi e i dialoghi telefonici con la moglie Lorraine (Laura Linney) −.
Nella direzione del suo trentaseiesimo film Eastwood porta in scena, ancora una volta, la vicenda di un uomo diventato eroe per aver fatto con coscienza il proprio dovere e che − armato soltanto della propria etica − si ritrova a dover fronteggiare l’inquietante intreccio di ceti burocratici, procedure tecniche e mass media, al servizio di interessi economici più o meno opachi. Che invece di premiarlo per la professionalità e il coraggio dimostrati vorrebbero pubblicamente distruggerlo, accusandolo di negligenza. Ma anche in un mondo percorso da relazioni indecenti fra diversi gruppi di potere quale è il nostro, «il fattore umano» − ci dice Clint − fa sempre la differenza, nonostante tutto. Lo ha dimostrato Sully, almeno in due specifiche circostanze: quando ha capito − forte della preparazione e dell’esperienza maturata in più di quarant’anni di servizio − che non sarebbe stato possibile né tornare indietro né seguire le indicazioni provenienti dalla torre di controllo, e si è inventato una via di salvezza folle; e quando lo si è visto abbandonare l’aereo per ultimo, dopo averlo percorso più volte con l’acqua alle ginocchia alla ricerca di eventuali feriti, incurante per la propria vita.
Per questo il film, pur non brillando per ritmo e per capacità di penetrazione psicologica dei personaggi, riesce comunque sia − anche grazie alla fotografia di Tom Stern (ricordiamo che il film è stato interamente girato nel formato panoramico IMAX) e all’interpretazione di Tom Hanks − a far passare il messaggio che l’etica civile di un Paese è forte solo quando può appoggiarsi sulle qualità e sulle azioni di singoli liberi e certi di sé. È grazie ai loro sforzi, insomma, che le discrasie e gli inganni del potere possono essere smascherati, e con un po’ di fortuna rovesciati. Una tipica morale da Clint Eastwood, appunto. Ma questa volta meno rabbiosamente individualistica che in altre circostanze.