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Centoquaranta opere dell’artista newyorkese al MUDEC fino al 26 febbraio 2017
di Maria C. Fogliaro
Un’immediatezza che tuttavia cela in sé molteplici livelli di significato: questo è il giudizio sintetico che si forma in chi si accosta alle opere di Jean-Michel Basquiat (1960-1988), in mostra al MUDEC (Museo delle Culture) di Milano fino al 26 febbraio 2017. Una vasta retrospettiva, curata da Jeffrey Deitch e da Gianni Mercurio, che ripercorre i quasi dieci anni di una carriera artistica che ha incrociato ai suoi esordi anche il nostro Paese: fu infatti a Modena, nella galleria di Emilio Mazzoli, che nel 1981 fu organizzata su ispirazione di Sandro Chia la prima personale di Basquiat. Mentre l’anno successivo, ancora a Modena, l’artista newyorkese fu incluso nella mostra Transavanguardia: Italia/America, curata da Achille Bonito Oliva e ospitata nella Galleria Civica.
Attraverso alcuni video e circa centoquaranta opere realizzate fra il 1980 e il 1987 − dipinti (spesso di materiali riciclati), collage, disegni, foto, e la serie di ritratti realizzati con l’evidenziatore nero su piatti in ceramica − si esplora il tragitto articolato di un artista autodidatta che, partito dalla strada − quando insieme all’amico Al Diaz firmava graffiti e scritte enigmatiche con l’acronimo SAMO (Same Old Shit) −, ha incarnato lo spirito e la vitalità della comunità artistica newyorkese degli anni Ottanta. E al contempo ha saputo rappresentare − date le sue origini haitiane e portoricane − l’esistenza lacerante dell’uomo di colore, in un periodo in cui la discriminazione razziale negli Stati Uniti era ancora molto forte.
Fondendo graffito e pittura, e associando frequentemente alle immagini testi criptici, scarabocchi ossessivi, frasi cancellate − frutto di parole a volte inventate, che egli inserisce nei dipinti e che spesso sono rivolte contro la discriminazione razziale e il mondo dell’arte −, Basquiat dà vita a composizioni drammatiche dall’aura sovversiva, popolate da «mostri» e senza traccia di abbellimenti estetici, nelle quali entrano anche raffigurazioni dettagliate di parti del corpo umano. Opere dai colori rabbiosi e violenti, caratterizzati da accostamenti inusuali e dissonanti − come si può vedere in lavori dalla grande forza compositiva come Back of the Neck (1983), Untiteld (Bracco di ferro) del 1983, e Pyro (1984) − così chiamato in omaggio a un personaggio della Marvel Comics creato nel 1981 −. Fra i dipinti in mostra solo Rodo (1984), che esprime bene − con il riferimento a Rhodos la moglie di Helios, immortalata in una stanza bianca vuota in bilico sul bordo di una sedia, con alle spalle una finestra blu − la commistione sempre cercata da Basquiat fra storia e contemporaneità, fra «cultura alta» e «cultura bassa», è un quadro dall’equilibrio e dalla serenità spiazzanti, molto diverso dalle altre opere delle quali «l’ottanta per cento è rabbia» − come affermò una volta lo stesso artista −.
La rapidissima ascesa del pittore newyorkese, scomparso tragicamente a ventisette anni per una overdose di eroina, coincise con «l’età dell’oro» del mercato dell’arte, il quale proprio dagli anni Ottanta iniziò − in linea con le tendenze più generali della politica e dell’economia americane dettate dall’ottimismo reaganiano − a influenzare in maniera più aggressiva che in passato le sorti complesse e mutevoli della scena artistica internazionale. Di questo rovesciamento nel rapporto tradizionale fra arte e mercato e del proprio appartenere a un tempo in cui l’artista nasce ‘nel’ mercato, Basquiat fu consapevole. Della propria epoca egli denunciò, infatti, le intrinseche contraddizioni, che riusciva perfettamente a cogliere anche in quanto «uomo di colore» celebrato come artista da un mondo di collezionisti nouveaux riches che in realtà ghettizzava le persone sulla base del colore della pelle. Una denuncia che emerge in tutte le sue opere, e molto più direttamente in quelle realizzate in collaborazione con Andy Warhol (di cui fu intimo amico), alle quali l’esposizione dedica una intera sala. Nati dal sodalizio fra due artisti appartenenti a generazioni diverse, e animati da uno spirito pittorico e da concezioni estetiche differenti, in questi lavori Warhol e Basquiat hanno voluto rappresentare gli sconvenienti eccessi prodotti dalla reaganomics, come testimonia chiaramente l’inquietante silhouette nera su sfondo giallo senape del volto di Reagan.
Una mostra quindi che permette di incontrare da vicino un artista poliedrico, che amò profondamente anche la musica e la scrittura; che volle disperatamente diventare famoso ed essere accettato in un mondo che pure sapeva scandaloso e ipocrita; ma che anche in questo fu completamente figlio del suo tempo.