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Frida Khalo, Diego Rivera, e la «rinascita messicana»

A Bologna la collezione Gelman in mostra fino al 26 marzo 2017

di Maria C. Fogliaro

Frida III

Con La collezione Gelman: arte messicana del XX secolo − in mostra a Bologna, a Palazzo Albergati, fino al 26 marzo 2017 − si torna al periodo d’oro dell’arte in Messico (1920-1960), vale a dire a quella rifioritura artistica e culturale, nota come «la rinascita messicana», che è direttamente legata all’evento storico nazionale più influente del XX secolo: la rivoluzione guidata da Pancho Villa ed Emiliano Zapata (1910), che consentì alle masse contadine, da sempre povere e sfruttate, di ribellarsi vittoriosamente in tutto il Paese, e che inaugurò l’èra delle grandi insurrezioni di popolo del Novecento. L’idea di una società e di un mondo nuovi implicò inevitabilmente anche una differente concezione dell’arte che non doveva più essere elitària e chiusa nei musei, ma aperta al popolo. Cavalcando la riscoperta della cultura precolombiana e popolare da parte dei rivoluzionari, il muralismo − la pittura sui muri degli edifici pubblici − fu il principale interprete dell’imponente entrata in scena delle masse.

Curata da Gioia Mori e organizzata da Arthemisia Group, la mostra in corso presenta i dipinti di alcuni degli esponenti di spicco di quel fecondo momento artistico, quasi tutti protagonisti attivi del grande cambiamento sociale e politico allora in atto: Rufino Tamayo, Marìa Izquierdo, Angel Zarraga, e David Alfaro Siquieros.

Al centro dell’itinerario espositivo sono le opere di Diego Rivera (1886-1957), il grande cantore − di formazione europea − dell’epopea collettiva messicana che rivendica con orgoglio le proprie origini preispaniche; protagonista di primo piano della rivoluzione del 1910 e del Partito comunista del suo Paese; e fervido assertore della funzione sociale e politica dell’arte, che doveva essere esposta in spazi aperti per essere fruibile dalle masse. E soprattutto troviamo i lavori di Frida Khalo (1907-1954), la «señora Rivera», che sposò Diego per ben due volte (nel 1929 e nel 1940) nonostante la relazione con il grande muralista fosse complessa e molto tormentata.

Afflitta da gravi problemi di salute fin dall’infanzia e poi costretta a letto per un lungo periodo a causa di un incidente devastante, Frida trovò nella pittura il mezzo per esprimere se stessa, e per lenire e provare a trasformare i dolori dell’anima e del corpo. Amata dai surrealisti, ella fu una «eroina culturale» messicana, capace di creare e reinventare un nuovo linguaggio artistico fondato su un’estetica personale che attinge a piene mani all’iconografia india, che la pittrice intreccia con la propria fede comunista catturando in tal modo l’anima profonda del Messico postrivoluzionario.

Oltre ai numerosi dipinti − fra i quali primeggiano gli autoritratti, e le opere che testimoniano le sofferenze del suo corpo martoriato, il tormento indicibile per una maternità impossibile, e l’amore travagliato ma indistruttibile per Diego −, la mostra documenta il successo popolare di Frida che varca fin da subito i confini nazionali: attraverso scatti fotografici, che la immortalano in pose ieratiche o immersa nel quotidiano; filmati, oggetti e le creazioni di altri artisti che alla pittrice messicana si sono ispirati, come gli splendidi abiti influenzati dallo stile amerindio di Frida.

Al termine del percorso espositivo, che si chiude con il celebre Autoritratto come Tehuana (Diego nei miei pensieri o pensando a Diego) che Frida Khalo dipinse nel 1943, mentre si ascolta Gracias a la vida della cantante cilena Violeta Parra, si ha la sensazione di aver attraversato uno spazio straordinario, plasmato dallo spirito di un intero popolo. Tra le più importanti raccolte d’arte messicana, la collezione Gelman − che fu creata dal 1941 dai coniugi Jacques Gelman e Natasha Zahalkaha e che comprendeva anche un nucleo europeo, oggi al Metropolitan Museum di New York − riesce infatti ad avvicinare alle fondamenta, anche mistiche, di una civiltà unica, la cui essenza fu efficacemente colta da Helm MacKinley, che in Modern Mexican Painters (1941) la definì mexicanism: un misto di misticismo e pessimismo unito a un’allegria malinconica. Proprio come Frida; proprio come il Messico.

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