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di Maria C. Fogliaro
Sul Grand Bé, isolotto roccioso nei pressi di Saint-Malo raggiungibile solo in condizioni di bassa marea, la tomba di François-René de Chateaubriand guarda verso l’oceano. In quel luogo solitario, lontano dai lamenti del mondo, Nathalie Chazeaux (Isabelle Huppert) è impegnata in una discussione con suo marito Heinz (André Marcon) sull’importanza di saper «vedere» la musica. Prima di andar via Heinz, da solo, ripreso con alle spalle la tomba del grande scrittore, si sofferma ad ascoltare il mare, e si immerge per un istante nell’immensità dello spazio e nei suoi infiniti silenzi. Così inizia Le cose che verranno (L’avenir, Francia, Germania, 2016, 102’), scritto e diretto da Mia Hansen-Løve.
Subito dopo la scena cambia. È trascorso molto tempo da quel giorno al Grand Bé. La Francia è nel pieno delle contestazioni alla riforma del lavoro e delle pensioni avviata dal governo socialista, e gli studenti sono in prima fila nella protesta. Nathalie ha passato i cinquant’anni, insegna filosofia in un liceo parigino e collabora con una casa editrice. È sempre sposata con Heinz – professore di filosofia come lei -, ha due figli quasi adulti, e si occupa dell’anziana madre, che l’età e la malattia hanno reso, come spesso capita, un po’ egoista e bisognosa di continue attenzioni.
È seria ma anche un po’ aspra e rigida, Nathalie. Una donna che non si sottrae a quelli che ritiene essere i propri doveri di insegnante, figlia, moglie e madre. E che soprattutto ama il suo lavoro e i suoi studenti, che vorrebbe tutti rendere autonomi e capaci di pensare con la propria testa, come Fabien (Roman Kolinka), il suo vecchio allievo prediletto, che collabora con la collana di studi filosofici che Nathalie dirige e che vive in una comune agricola insieme alla sua ragazza e a un gruppo di intellettuali anarchici.
Tutto sembra procedere senza scosse, ma anche senza emozioni e passioni intense, nella vita della professoressa, finché, per cause indipendenti dalla sua volontà, tutte le certezze di Nathalie crollano di un colpo, e per la donna inizia un nuovo percorso esistenziale che le consente di confrontarsi con il senso vero della libertà, di fare i conti con la propria interiorità, e di aprirsi – se lo vorrà – a una vita nuova.
È il tema eterno della morte e della rinascita quello che la trentaseienne regista parigina – Orso d’Argento al Festival di Berlino 2016 – porta in scena in L’avenir, un film intenso, ricco di dialoghi e di suggestioni visive (grazie anche alla bella fotografia di Denis Lenoir), nel quale il lied di Franz Schubert Auf dem Wasser zu singen è stato scelto per accompagnare il flusso della vita e la faticosa riconquista di se stessa da parte di Nathalie, cui una impeccabile Isabelle Huppert ha saputo infondere – sottolineandone durezze, fragilità, e punti di forza – una profonda umanità. Un film di recitazione, quindi, di parole e gesti, incentrato sul mutamento come costante della vita, che offre anche grazie alle crisi e alle ferite sempre opportunità nuove. Sta all’essere umano volerle cogliere, e decidere di vivere in pienezza e senza paura la propria libertà.