Maurizio Scarpari: In margine alla visita di Xi Jinping in Italia
A conti fatti la visita in Europa di Xi Jinping è stata un grande successo diplomatico per la Cina e, direi, anche per il Principato di Monaco e per la Francia, assai meno per l’Italia. Per il nostro paese i risultati sono stati alquanto modesti, sia sul piano dell’immagine sia su quello economico. Secondo quanto trionfalmente annunciato, sarebbero stati sottoscritti accordi per un valore di 2,5 miliardi, con un potenziale, tutto da esprimere, di 20 miliardi. Può sembrare una cifra importante, ma in realtà si tratta di poca cosa, se si pensa a quanto abbiamo concesso sul piano politico e, in prospettiva, strategico.
La Francia, dove Xi si è recato nei giorni successivi al soggiorno in Italia, ha firmato accordi per circa 10 miliardi e venduto 300 aerei del consorzio europeo Airbus, per un controvalore di 30 miliardi (effettivi, non potenziali), senza aver firmato il controverso Memorandum of Understanding sulla Bri (Belt and Road Initiative, la nuova Via della seta). Emmanuel Macron ha anche sollevato la spinosa questione dei diritti universali dell’uomo, tema delicato tutt’altro che inopportuno, non solo in considerazione della progressiva riduzione degli spazi di libera espressione e della deriva autoritaria avvenute in Cina, ma anche in riferimento al progetto della Via della seta. Nella Regione autonoma del Xinjiang, snodo strategico cruciale per il successo della Bri, essendo un passaggio obbligato per le principali rotte di terra verso occidente, è stata messa in atto una politica di controllo e repressione delle dissidenze ai danni della popolazione uigura di fede musulmana in base alla quale almeno un milione di persone è attualmente rinchiuso nei cosiddetti “centri di formazione vocazionale”.
Nemmeno la Germania, il principale partner commerciale europeo della Cina, ha firmato il Memorandum; ciò nonostante, senza incontrare particolari difficoltà, ha promosso accordi strategici sulle infrastrutture, sia porti che linee ferroviarie, e stipulato accordi miliardari, come ad esempio quello siglato a Berlino la scorsa estate con il premier Li Keqiang per un valore di oltre 20 miliardi (effettivi, non potenziali).
Se i benefici economici per l’Italia almeno per il momento appaiono modesti, quali sono dunque le opportunità offerte da questa operazione, fortemente voluta dal sottosegretario Michele Geraci e prontamente fatta sua dal ministro Luigi Di Maio? Il principale vantaggio, ha spiegato il ministro, è l’aver giocato d’anticipo rispetto alle nazioni europee che contano: una fuga in avanti che avrebbe consentito all’Italia di arrivare prima in una competizione che in realtà non c’è e non c’è mai stata, e che, se ci fosse stata, non ci avrebbe di certo visti arrivare primi. Abbiamo firmato un’intesa alla quale siamo stati costretti ad aderire, pena la mancata ratifica degli accordi e la condanna a permanere nell’irrilevanza in cui ci troviamo da tempo a causa della drammatica situazione di fragilità economica e istituzionale che è sempre più difficile mascherare (siamo il fanalino di coda tra i paesi dell’Europa che conta sia per prodotto interno lordo sia per volume di scambi commerciali con la Cina).
Una competizione che non c’è mai stata: solo i paesi di serie B si sono affannati a sottoscrivere il Memorandum nella speranza di ricevere qualche trattamento preferenziale (salvo poi lamentarsi per la mancata concretizzazione di parte dei vantaggi promessi), gli altri ipotetici concorrenti hanno resistito alle pressioni, concentrando gli sforzi sul tentativo, non facile da tradurre in strategia, di stilare norme comuni a livello europeo, nella convinzione che i singoli paesi da soli non potranno mai dialogare “alla pari” con un colosso come la Cina.
Porre delle condizioni non ha significato dover rinunciare a concludere accordi su base bilaterale. La situazione è complicata a causa della mancanza di coordinamento tra i partner europei, scarsamente coesi anche a motivo di complesse dinamiche internazionali, essendo Stati Uniti, Russia e Cina interessati a tenerli divisi. L’Europa è il maggior mercato al mondo ed è quindi del tutto logico che voglia determinare le regole del gioco o quanto meno negoziare da una posizione di forza, evitando di diventare terreno di facile conquista.
Credere e far credere che il Memorandum sia un semplice accordo commerciale senza valenze politiche, come se l’economia fosse disgiunta e indipendente dalle logiche di governo, è un’assurdità che pagheremo cara. Cosa c’è di più politico e strategico per un paese, e per la sua sovranità e sicurezza, del controllo delle sue infrastrutture, della logistica, delle energie rinnovabili, delle telecomunicazioni, del settore aeronautico e aerospaziale, dell’ambiente, della sanità, del patrimonio legato alla propria creatività e al proprio know-how? Lo “scatto in avanti” del governo italiano appare frutto di una scelta improvvisata e pasticciata, dettata da un disperato bisogno di investimenti e da un esasperato narcisismo dei suoi protagonisti.
Diversamente da come viene presentato, il Memorandum non ci favorisce, ed è divisivo, avendoci isolato dai nostri partner tradizionali ancor più di quanto già non fossimo. Tant’è che a Parigi il premier Giuseppe Conte non è stato invitato a una sorta di pre-vertice a quattro organizzato last-minute da Macron con Xi Jinping, Jean-Claude Juncker e Angela Merkel, un’anticipazione del vertice Cina-Ue previsto il prossimo 9 aprile a Bruxelles che vedrà la partecipazione di tutti i governi europei. Obiettivo della riunione era evidenziare l’isolamento del governo italiano e ridimensionarne lo strappo, facendo comprendere “a caldo” a Xi Jinping quanto sia determinante in Europa l’alleanza franco-tedesca: alla fine è con Bruxelles e non con Roma che dovrà vedersela. Macron e Merkel hanno così dimostrato che si può portare avanti una linea comune senza dover necessariamente rinunciare ai propri interessi nazionali. Xi Jinping ha prontamente compreso l’antifona e ha assecondato il presidente francese definendo la Francia “partner prioritario”.
Il governo italiano ha imboccato una strada insidiosa, che lo sta conducendo verso terre inesplorate. All’inizio del febbraio 2018 Di Maio, non ancora al governo, tuonava contro chi aveva svenduto ai cinesi “il Made in Italy in tutti i settori, dall’artigianato all’agroalimentare”. Qualche tempo dopo il nostro ambasciatore a Pechino firmò, insieme ai rappresentanti di altri 26 paesi europei, un rapporto alquanto critico nei confronti del progetto sulla Via della seta, che veniva accusato di favorire quasi esclusivamente gli interessi cinesi. Per riequilibrare la situazione, il governo Gentiloni si fece promotore, insieme a Francia e Germania, di un sistema condiviso di screening degli investimenti esteri al fine di proteggere i settori strategici europei, provvedimento non sottoscritto, a febbraio di quest’anno, dal governo Conte (astensione che è stata interpretata come un primo segno di accondiscendenza verso i cinesi).
È avvenuto un capovolgimento di prospettiva, determinato dall’attivismo del sinofilo di provata fede Geraci, convinto che la Cina possa risolvere ogni nostro problema ed essere presa a modello dai nostri politici. È lui il vero artefice del nuovo orientamento, Di Maio l’ha seguito per pura necessità, per colmare un vuoto programmatico e fare cassa, mentre Matteo Salvini (primo sponsor di Geraci al governo) si è mosso con maggiore cautela, ricevendo le continue sollecitazioni dell’ambasciatore statunitense a Roma, preoccupato per la repentina svolta intrapresa dal governo italiano. In questa situazione non sarà certo il sistema di golden power che garantirà la salvaguardia degli interessi e della sicurezza nazionali, sarà infatti sempre il governo a decidere se e quando applicarlo. Si sa bene che le logiche che sottendono alle decisioni della nostra classe dirigente sono conflittuali e raramente lungimiranti, a differenza delle programmazioni dei cinesi che hanno pianificato le tappe della loro politica di espansione egemonica fino al 2050.
La posta in gioco è alta, le società sono in rapida trasformazione e le relazioni tra le nazioni stanno subendo cambiamenti radicali. La contesa Cina-Usa per la supremazia è solo agli inizi: la dirompente e per molti versi destabilizzante politica di ridefinizione degli assetti geopolitici ed economici a livello globale avviata con aggressività da Donald Trump impone ai governi scelte coraggiose e lungimiranti. Ora è necessario promuovere progetti di sviluppo ben ponderati e creare alleanze solide che, senza sacrificare le sovranità nazionali, siano in grado di affrontare le competizioni in modo pacifico, evitando ogni tentazione di ricorso alle armi.
L’alto valore politico e strategico attribuito da Xi Jinping alla sua missione europea è deducibile dall’imponenza della delegazione al suo seguito: oltre alla moglie, l’elegantissima Peng Liyuan, impareggiabile icona del soft power cinese, hanno accompagnato il presidente alcuni esponenti di primo piano del partito comunista e alti funzionari del governo, tra cui tre ministri e due vice-ministri, centinaia di imprenditori, direttori di musei e di altre istituzioni, 120 giornalisti, un centinaio di addetti alla sicurezza e alla direzione dello staff (tra il personale al seguito non sono mancati i cuochi che si sono portati dalla Cina un’enorme quantità di cibo): in tutto oltre 500 persone, con una cinquantina di automobili a disposizione, tra vetture blindate (due Hongqi N501 arrivate appositamente dalla Cina), berline e van.
Incurante delle polemiche che hanno preceduto il suo arrivo in Italia, “il presidente di tutto”, “il presidentissimo”, “l’imperatore”, com’è soprannominato in Occidente Xi Jinping, ha voluto rimarcare il forte peso istituzionale della missione, riconoscendo l’importante ruolo svolto dall’Italia, paese fondatore dell’Unione Europea e primo, e finora unico, paese del G7 ad aver firmato il Memorandum sulla Bri. Grazie all’iniziativa italiana si è aperto un varco per arrivare al cuore dell’Europa che conta: indipendentemente dagli accordi siglati, è un chiaro messaggio per Trump che con la sua dissennata politica sui dazi invece di fermare ha favorito l’espansione e le mire egemoniche della Cina.
Il corteo presidenziale di Xi Jinping, in perfetto stile imperiale, ha dato la misura della grandeur della “Cina della nuova era”: nulla a che vedere con quanto documentato dai selfie del vicepremier Di Maio nei sui viaggi ufficiali in Cina, i voli in seconda classe e i riferimenti al “presidente Ping”, una gaffe apparentemente banale, rivelatrice però della sua scarsa conoscenza della realtà cinese. Altrettanto imbarazzante è stata l’assenza dei vertici di governo a Fiumicino all’arrivo del presidente cinese: ad accoglierlo c’era solamente il ministro alle Politiche agricole Gian Marco Centinaio, per via forse del primo carico di arance finalmente in viaggio per la Cina… Questo disprezzo per le più elementari consuetudini diplomatiche evidenzia la distanza che separa chi ha il senso delle istituzioni da chi non ce l’ha, chi conta davvero da chi invece crede di contare.