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Timori e speranze sulla Via della Seta

di MAURIZIO SCARPARI

(a cura di Amina Crisma, in collaborazione con www.inchiestaonline.it )

Maurizio Scarpari: Timeo danaos et dona ferentes. Timori e speranze sulla Via della seta

C’era da aspettarselo, alla fine i nodi giungono al pettine. La mancanza di un progetto di sviluppo autonomo e di ampio respiro, che abbia un orizzonte temporale di medio-lungo periodo e che tenga conto della complessità della realtà politica ed economica globale, ha messo in luce ancora una volta l’inadeguatezza di un governo bicefalo, in modo particolare della sua componente penta-stellata.

Ha provveduto a colmare la lacuna Michele Geraci, sottosegretario del Ministero per lo Sviluppo Economico (Mise), titolare del dossier Cina, che sta lavorando per realizzare quanto promesso alla vigilia della sua nomina: in un articolo pubblicato sul blog di Beppe Grillo l’11 giugno 2018 (diverrà sottosegretario due giorni dopo) dal titolo “La Cina e il governo del cambiamento” Geraci sostenne infatti che “la Cina sarebbe stata la variabile di impatto maggiore sulla nostra economia e società durante il quinquennio 2018-2023 dell’attuale legislatura”, spiegando come il coinvolgimento attivo della Cina nella nostra politica economica avrebbe risolto – magicamente aggiungiamo noi –, tutti i punti del programma di governo Lega-5S. Il suo intervento fu al centro di aspre critiche, sostanzialmente dovute alla disinvoltura con cui Geraci proponeva il modello illiberale cinese come fonte di ispirazione per i politici italiani. Inchiesta è intervenuta sulla questione in due occasioni, l’8 luglio 2018 (“La panacea cinese? Una risposta al Sottosegretario Geraci. Perché è pericoloso prendere la Cina come modello dei flussi migratori”, http://www.inchiestaonline.it/politica/la-panacea-cinese-una-risposta-al-sottosegretario-geraci-perche-e-pericoloso-prendere-la-cina-come-modello-di-gestione-dei-flussi-migratori) e il 18 settembre 2018 (“Parliamo con la Cina, sì. Ma forse non siamo pronti”, http://www.inchiestaonline.it/politica/maurizio-scarpari-parliamo-con-la-cina-si-ma-forse-non-siamo-pronti).

Capita così che il governo dell’incompetenza abbia oggi un progetto di sviluppo da proporre al paese. Un progetto che non è ancora definito nel dettaglio – non lo era nemmeno quello sul reddito di cittadinanza, nonostante fosse il cavallo di battaglia del Movimento –, ma che impone di siglare comunque un accordo in fretta e furia, così da far cassa mediatica alla vigilia delle elezioni amministrative ed europee. Il 22 prossimo sarà dunque firmato un accordo quadro con Xi Jinping, che verrà in Italia per l’occasione, a conferma dell’importanza che i cinesi attribuiscono alla possibilità di coinvolgere formalmente nel progetto Belt and Road Initiative (Bri), meglio noto come Nuova Via della seta, un paese del G7 e fondatore dell’Unione Europea, visto che gli altri paesi partner si sono finora astenuti dal sottoscriverlo. A costo di doversi accollare anche parte del debito sovrano italia-no, come peraltro previsto dalla proposta avanzata da Geraci, ipotesi che accresce la preoccupazio-ne di Stati Uniti e Unione Europea.

La Bri è un programma infrastrutturale grandioso, che si estende lungo il continente euroasiatico fino a giungere alle coste atlantiche, i paesi dell’Asia orientale e meridionale e del Sudest asiatico, l’Africa. E oltre. Attualmente sono coinvolti una settantina di paesi, ma il loro numero è destinato ad aumentare. Sono previsti investimenti massicci con due obiettivi primari: posizionare la Cina al centro di una fitta rete di collegamenti stradali, ferroviari, marittimi, aerei, ma anche di oleodotti, gasdotti, reti di telecomunicazioni, ecc., e smaltire la propria sovrapproduzione industriale, creatasi in seguito alla contrazione delle esportazioni, riducendo la quale l’economia cinese sarebbe destinata a un ridimensionamento così drastico da causare gravi ripercussioni a livello interno ma anche mondiale. Si tratta di un progetto egemonico senza precedenti nella storia dell’umanità, per realizzare il quale la Cina ha programmato di destinare oltre mille miliardi di dollari per la sola fase iniziale, soldi che in alternativa avrebbe potuto investire nel paese per migliorare la qualità della vita di milioni di cinesi, molti dei quali vivono ancora in condizioni di semipovertà. I cinesi, si sa, non regalano niente a nessuno, se investono all’estero vogliono ricavarne un adeguato tornaconto. La loro capacità di penetrazione è impressionante. Sono bravi negoziatori e grandi lavoratori, tendono a muoversi all’interno di comunità sostanzialmente autosufficienti, avendo una concezione diversa dalla nostra dei diritti dei lavoratori, del rispetto delle regole e della libera concorrenza. Insomma, non vanno presi alla leggera.

Il Mise si muove invece con una disinvoltura preoccupante, convinto – e volendo convincere – che l’accordo quadro che l’Italia si accinge a firmare implica una collaborazione puramente commerciale, senza implicazioni politiche (il fatto che il progetto sia esplicitamente indicato come strategico nella Costituzione del Partito comunista cinese è, evidentemente, un dettaglio), grazie al quale “per la prima volta cominciamo a mandare i nostri prodotti in Cina” per dirla con il ministro Di Maio, che per sostenere l’accordo si è recato già due volte in Cina, lasciando come ricordo la sua celebre gaffe del “Presidente Ping”. Per la prima volta? Cominciamo? E i 20,41 miliardi di dollari di nostre esportazioni in quel paese nel solo 2018? Sembra di sentire i soliti slogan roboanti improntati su “per la prima volta nella storia…”, “stiamo scrivendo la storia”, “abbiamo abolito la povertà”, “abbiamo spazzato via la corruzione”, ecc. Ogni volta si riparte dall’anno zero. Si tratta di pura propaganda, portata avanti quotidianamente in un’estenuante competizione elettorale 24 ore su 24, 7 giorni su 7, che mira a contrastare l’inarrestabile ascesa leghista (del cui sdoganamento i pentastellati dovrebbero sentirsi responsabili) nella speranza di un’improbabile rimonta. In questi giorni concitati, nel corso di un’intervista Di Maio ha persino azzardato un parallelo con Trump: se Trump ha fatto dello slogan America First il suo vessillo politico, allora noi faremo di Italy First il nostro. Sfugge al ministro il fatto che l’Italia non è l’America, circostanza tutt’altro che trascurabile, e che per sostenere la sua politica Trump ha dato vita alla più massiccia offensiva, che non è solo commerciale, contro la Cina, per bloccarne l’avanzata, mentre noi stiamo imboccando una strada che va nella direzione opposta. Ma questi sono dettagli, solo parole prive di un reale contenuto.

La posta in gioco è alta e la partita potrebbe farsi complessa. La Bri non è un accordo com-merciale come Di Maio & Co. credono e vorrebbero far credere, sostenerlo denota incompetenza e/o malafede. I prestiti che le banche cinesi sono pronte a elargire (la Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture in primis) saranno finalizzati principalmente, se non esclusivamente, alla realizzazione di infrastrutture. Perché dunque presentare l’accordo come qualcosa che non è, dal momento che un eventuale incremento delle nostre esportazioni non dipende dalla nostra partecipazione formale alla Bri? Per inviare i propri prodotti in Cina, infatti, non serve affiliarsi alla Bri: gli altri paesi del G7, e non solo loro, esportano in Cina molto più di noi (siamo il fanalino di coda anche in questo) senza aver sottoscritto la Bri, sono solo più bravi a muoversi come “sistema paese” e a promuovere le loro aziende. Si vorrebbe far credere che attraverso la Bri si potrà finalmente colmare il divario con gli altri paesi: un modo semplicistico per affrontare una questione complessa.

La Bri non è stata pensata per far aumentare le esportazioni dei paesi finanziati dalla Cina (semmai è vero il contrario), sarebbe assurdo solo pensarlo ed è tutto da dimostrare che, anche a fronte di un aumento delle esportazioni, le importazioni sarebbero contenute o ridotte. La realtà è ben diversa da come viene presentata, il rischio di venir invasi dai prodotti cinesi è altissimo, ed è questo che in genere è avvenuto nei paesi che hanno sottoscritto la Bri. Proprio per salvaguardare “la prosperità, il modello sociale e i valori comuni della Ue nel lungo periodo” e cercare di fronteggiare in modo coeso l’avanzata cinese di recente l’Unione Europea (primo partner commer-ciale della Cina) ha predisposto un documento d’intenti comune, dal quale solo l’Italia tra i grandi paesi europei si è dissociata, nonostante fosse tra i promotori dell’iniziativa (durante il governo Gentiloni).

Intendiamoci: la Bri rappresenta un’opportunità importante, anche per l’Italia, impossibile non riconoscerlo, ma proprio per questo ci vuole prudenza e soprattutto bisogna avere un progetto di modernizzazione e sviluppo delle infrastrutture del paese di ampio respiro, per evitare di trovarsi travolti o, peggio ancora, intrappolati in qualcosa di più grande di quanto si possa immaginare, com’è successo a diversi stati che prima di noi si sono avventurati, per necessità o perché abbagliati dai soldi, lungo la Via della seta, trasformatasi presto per loro in Via del disastro.

Nel caso della nostra partecipazione alla Bri sì che sarebbe necessaria un’analisi costi-benefici: per vedere conclusa quella sul Tav Torino-Lione, che ha avuto per oggetto una linea ferroviaria di poche decine di chilometri, c’è voluta un’eternità, possibile che questo accordo con la Cina si debba chiudere in tutta fretta e senza renderne noti i termini in tempo utile per una discussione costruttiva anche in Parlamento? Si ha idea della trasformazione infrastrutturale che si renderà necessaria in previsione dell’arrivo nei porti italiani di centinaia di migliaia di container, del loro stazionamento e trasporto in tutta Europa? Una nave portacontainer moderna ne stiva fino a 21.000 (da 20 piedi), l’86,5% dei trasporti in Italia avviene su gomma (76,4 in Europa) e un tir può portare al massimo due container alla volta (o uno da 40 piedi). Altro che alta velocità e Tav, ci vorrà ben altro! Augusto Cosulich, titolare della Fratelli Cosulich (sede a Genova, uffici in tutti i continenti, 1,1 miliardi di euro di fatturato), da trent’anni rappresentante in Italia della Cosco, la compagnia di stato cinese di servizi di spedizioni marittima e di logistica portuale, leader mondiale nel settore e braccio operativo della Bri, ha dimostrato che il trasporto dei container via terra risulta più costoso se essi vengono sbarcati nei porti italiani piuttosto che a Rotterdam, principale punto d’approdo delle navi cinesi nel nord Europa. Per diventare competitivi sarà inevitabile ristrutturare massicciamente l’intera rete italiana dei trasporti. È un’opportunità eccellente per l’Italia e per le nostre autostrade e ferrovie obsolete, ma a quale prezzo? E in base a quali scelte? Un’analisi costi-benefici seria sembrerebbe in questo caso sì d’obbligo, ma è difficile immaginare che a gestire quest’enorme impresa possa essere il ministro Toninelli, che peraltro sulla Bri tace, a riprova della sottovalutazione del problema di cui si sta parlando. Cosa succederà quando dagli “impegni non vincolanti” dell’accordo quadro si passerà alle vie di fatto? Il ministro Salvini faticherà a farsi garante con gli Stati Uniti, come sembra essersi candidato a fare; staremo a vedere quale sarà la reazione americana. “L’Italia è finita senza accorgersene nel mezzo del ring dove Stati Uniti e Cina si sfidano per il titolo mondiale dei supermassimi” ammonisce il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, secondo il quale la strategia alla base della Bri consiste nel potenziare al massimo la rete delle infrastrutture che legano la Cina al resto del mondo, penetrare nei sistemi politico-istituzionali dei paesi coinvolti e costruire basi militari lungo le rotte interessate.

Stando alle dichiarazioni delle autorità cinesi la Bri è un programma di cooperazione che dovrebbe recare benefici a tutti i partners coinvolti, ma l’esperienza di numerosi paesi, per lo più asiatici e africani, in questi primi cinque anni di attività dimostra che non è sempre così. Tant’è che diversi stati hanno già ridimensionato o stanno tentando di ridimensionare gli impegni assunti, essendo caduti nella cosiddetta “trappola del debito” che li costringe a ripagare i debiti cedendo risorse primarie o il controllo di strutture strategiche che non era previsto dovessero venir alienate. I porti del Pireo in Grecia (multato nei giorni scorsi dall’Ufficio Europeo per la Lotta Antifrode per un’imponente frode fiscale perpetrata dai cinesi, una delle tante), di Gwadar in Pakistan (da dove transita il 60% del traffico mondiale di petrolio e gas) e di Gibuti nel Corno d’Africa (considerato un avamposto militare strategico per il controllo dell’intera Africa orientale) rappresentano esempi a cui guardare con estrema attenzione, visto che l’interesse principale dei cinesi non è tanto per il paese Italia quanto per i suoi porti, in particolare Genova e soprattutto il porto franco di Trieste, che in virtù del principio di extraterritorialità riconosciutogli nel 1947, può offrire privilegi fiscali rilevanti agli operatori che vi sbarcano le loro merci, che potranno così evitare di fare dogana e pagare dazi e tasse. Rischia di prodursi una situazione con risvolti drammatici per il comparto manifatturiero del nord-est, e non solo, come ha denunciato recentemente il presidente degli industriali del Friuli occidentale Michelangelo Agrusti, secondo il quale la concorrenza “sleale” che si creerebbe metterebbe in ginocchio decine di aziende. Ovviamente nessuno al governo ha pensato di sentire il suo parere…

Le conseguenze di varia natura che si prospettano con questo accordo non sono banali e chi sta ge-stendo l’operazione dovrebbe saperlo. Inoltre ignorare la complessità dell’attuale situazione geopolitica, del conflitto sempre più preoccupante tra Stati Uniti e Cina che sta destabilizzando gli assetti economici e politici dell’intero pianeta, le implicazioni di ordine politico e anche di natura ideologica sui quali non intendiamo qui addentrarci ma che emergeranno di sicuro (come i casi della Grecia o degli Istituti Confucio insegnano) dovrebbero indurre i nostri governanti a una maggiore cautela.

Il problema non sono allora i cinesi e non è nemmeno la Bri, ognuno fa il suo mestiere e i cinesi cercano di fare il loro al meglio. I problemi li abbiamo in casa: sono la carenza progettuale, l’incompetenza e l’improvvisazione con cui i titolari del Mise, del Ministero per le infrastrutture e dei trasporti e del Ministero dell’economia e delle finanze affrontano un tema così complesso e delicato. La superficialità dei nostri politici assomiglia troppo, per non preoccupare, a quella con cui hanno affrontato altri temi, rivelatisi più complessi da risolvere di quanto immaginato prima di formare il governo, obbligandoli a repentini cambi di posizione, con torsioni anche di 180°: il rapporto con l’Unione Europea e l’euro, la disponibilità finanziaria per sostenere economicamente le promesse elettorali, il braccio di forza con la Commissione europea in sede di elaborazione della legge di stabilità, la chiusura dell’Ilva e la bonifica di Taranto, la chiusura del gasdotto trans-adriatico Tap in Puglia e del sistema di comunicazioni satellitari militari ad alta frequenza Muos in Sicilia, l’uscita dal progetto ad alta velocità Torino-Lione, il reddito di cittadinanza e così di seguito.

Alla luce di queste considerazioni e del dibattito che si è creato intorno alla partecipazione dell’Italia alla Bri, che ha irritato e preoccupato i nostri partner tradizionali, Stati Uniti e Unione Europea, e ha causato critiche e dubbi da parte di politici, imprenditori ed esperti, non possono che destare ulteriore allarme le dichiarazioni del ministro Tria, secondo il quale tutto questo discutere altro non sarebbe che “una tempesta in un bicchier d’acqua”. Il Mediterraneo forse non è più il Mare nostrum, ma non per questo è diventato un bicchiere d’acqua.

 

 Maurizio SCARPARI
(a cura di Amina Crisma, in collaborazione con www.inchiestaonline.it )

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