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Il lavoro e il corona virus

Landscape with Trees and Figures - William Turner

Landscape with Trees and Figures – William Turner

 

 

 

 

 

 

Negli USA si stima che di dieci posti persi a causa di questa crisi solo tre ritorneranno.  Se questa è la situazione al di la dell’oceano, la nostra non potrà essere certamente molto più rassicurante. Ma allora che fare?

Innanzi tutto bisognerebbe cercare di abbandonare l’approccio emergenziale.

Questo approccio fa si che i governanti si stiano prefiggendo una strategia che potremmo definire quella  del respiro sott’acqua.

Il manuale di questo disegno prevede  che alla nostra comunità basterà non affogare mentre la testa sta immersa  e non appena essa ritornerà al livello dell’aria  ricomincerà immediatamente a respirare a pieni polmoni.

Purtroppo non sarà così. 

Per cercare di capire cosa succederà al nostro paese bisognerebbe andare, invece,  a guardare alla composizione della forza lavoro per settore e cercare di comprendere cosa accadrà li. 

Una volta intuito il danno di lungo periodo si dovrebbe procedere a costruire un piano per riuscire a ricostruire una professionalità utile al nuovo mercato per le persone che sono state spinte fuori da questa crisi.

Proviamo a dare un contributo, ovviamente abbozzato e molto approssimativo.

Il tasso di occupazione(percentuale fatta sulle persone che lavorano, il resto sono disoccupati, inoccupati e/o pensionati) è così ripartito: 

16.3 su cento lavorano in educazione e sanità,

 6.5 nella pubblica amministrazione, 

15.5 nei servizi per le imprese, 

6.7 in alberghi e ristoranti, 

23.5 nel commercio, trasporti e comunicazioni, 

22.4 nell’industria manifatturiera, 

7.3 nelle costruzioni 

ed il 2 in agricoltura.

Solo da questi primi dati capiamo di come una piccolissima parte dei lavoratori sia  al riparo dall’ondata (circa il 20%)  mentre per un’altra parte(circa il 40%),  soprattutto nell’industriale, la strategia del trattenere il respiro potrebbe probabilmente funzionare.

Purtroppo facendo un’analisi, neppure troppo acuta e dettagliata, ci accorgeremmo che circa il 40% dei lavoratori del paese (tutto il commercio, il settore turistico strettamente considerato e l’automotive) è di fronte ad un cambio epocale i cui esiti sono realmente difficili da prevedere.

Di fronte a questa quantità  enorme di lavoratori bisognerebbe correre da subito ai ripari perché la situazione potrebbe diventare socialmente ed economicamente ingestibile(i lavoratori, tra le altre cose, pagano i contributi pensionistici).

Le misure dovrebbero essere di due tipi:

Quelle direttamente controllabili e quelle che si spera portino i loro frutti.

Tra quelle direttamente controllabili si dovrebbe pensare ad un aumento delle commesse pubbliche nel settore dell’edilizia (evitando sprechi con misure serie), incrementare il numero dei formatori formatori- formandoli a loro volta e magari integrando le loro schiere con persone che hanno esperienze lavorative sul campo-  ed aumentando le persone che lavorano nella parte socio sanitaria per far fronte ad esigenze già ben presenti nella società.

 Si potrebbe inoltre pensare ad incentivi per l’accorciamento della catena del valore per poter aumentare la forza occupata nell’industria.

Tutte pagliuzze che potrebbero lenire il dolore.

Ma Insieme al miglioramento infrastrutturale lo stato dovrebbe poi aggredire il livello di professionalità e la potenzialità di fare impresa degli italiani e delle persone che possano volere venire ad investire e/o ad abitare nel nostro paese per creare nuova occupazione e nuovi lavori- unica vera soluzione di lungo periodo-.

Ma cosa sta facendo il governo di tutto questo? Francamente poco. Sta agendo pensando solo al momento e neppure molto bene (l’annuncio della cassa integrazione non paga la bolletta del telefono, solo i soldi sul conto corrente lo fanno).

Lo farà? Non si sa. Quello che appare è che al momento si guardi all’immagine lasciando la sorte di un buon 40% dei lavoratori italiani nella mano della fortuna che, come sappiamo, non è sempre una meravigliosa alleata. Per chi non crede in dio, non rimane neppure la fede.

 

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