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(in collaborazione con www.inchiestaonline.it)
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“Il dialogo non si svolge fra rappresentanti di culture o religioni diverse che giocano ciascuno il proprio rispettivo ruolo, ma fra uomini e donne che credono nel dialogo e nell’incontro come motore delle relazioni umane. Vedo molto più dialogo ecumenico e interreligioso all’uscita di una scuola elementare o in un mercato rionale di quanto non possa avvenire nelle aule universitarie e nei luoghi di culto.” Questa considerazione del canonista Pierluigi Consorti è presente nell’ultima pagina del volume a più mani “La diversità feconda. Un dialogo etico fra le religioni nella città”, curato da Simone Morandini e promosso dalla Fondazione Lanza, e, se non rappresenta “il sugo di tutta la storia” come le parole di Renzo in Manzoni, illumina in modo molto efficace la realtà sociale, non solo europea, che ha fatto sì che l’urgenza del dialogo interreligioso e interculturale abbia fatto superare ogni riserva dottrinaria, magari “con juicio”, con un salto di qualità culturale.
Ciò non implica che non esistano altre importanti ragioni di questo dialogo. Fra i cristiani, l’afflato messianico verso l’unità della Chiesa. Fra i credenti delle religioni abramitiche, perché, nelle parole del 1074 di papa Gregorio VII, “crediamo e confessiamo l’unico Dio, ammesso nei diversi modi”. Fra tutti, l’aspirazione alla fratellanza e alla reciproca comprensione fra gli esseri umani. Implica però che, data in ogni caso la fondamentale irriducibilità del “patrimonium fidei” o della visione del mondo delle diverse confessioni, anche la riflessione teologica ed etica non può esimersi dall’ affrontare un adattamento evolutivo, per cercare ugualmente i numerosi punti di incontro che possono essere trovati già ora o che potrebbero darsi, nel proseguire del processo, in futuro. Yahia Zanolo propone un versetto del Corano, V, 48, che si presta a descrivere la via meno incerta fra quelle su cui il dialogo si è incamminato: “Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora avete divergenze”.
In una presentazione sul web del volume multidisciplinare e interdisciplinare curato da Morandini il teologo Brunetto Salvarani propone di estendere l’attenzione, oltre che agli aspetti teologico, etico, interculturale e di riflesso sociologico, anche al quadro giuridico in cui le relazioni fra le diverse comunità religiose si inseriscono. Sottolinea cioè la necessità che tutti, credenti o non credenti, aggiornino la loro concezione del rapporto fra comunità religiose e autorità civili, che non può più essere quello del conte di Cavour o del cattolico liberale Manzoni. Nella nostra cultura, soprattutto dei paesi cattolici, è stato centrale il rapporto fra Stato e Chiesa: dalla lotta delle investiture del citato papa Gregorio VII allo schiaffo di Anagni, dalla Riforma di Martin Lutero al giurisdizionalismo, fino all’Illuminismo e all’affermarsi polemico della modernità liberale. Lungo questo percorso la Chiesa si è adattata a ridimensionare e purificare il proprio ruolo in una società in cui non era più egemone, continuando a rivendicare la libertà del proprio apostolato, l’indipendenza del proprio ordinamento giuridico e l’importanza del proprio contributo al bene comune. Lo Stato da parte sua doveva affermare la sua sovranità originaria rispetto a tutti gli ordinamenti che rispetto al suo erano “privati”, secondo la formula di Luigi Luzzatti per cui la Chiesa doveva essere “libera in uno Stato sovrano”.
I concordati sono stati un modo per contemperare queste opposte esigenze, mutuando alcune modalità dal diritto internazionale. In Italia le altre confessioni religiose, intellettualmente e politicamente vivaci, erano fenomeni minoritari che nascevano dalla stessa storia, ponevano il problema della libertà ed erano indicatori del suo effettivo conseguimento. Ora la situazione è completamente mutata. Mentre le problematiche tradizionali si sono sostanzialmente assestate, a causa dell’immigrazione e della globalizzazione culturale e informativa molte confessioni o tradizioni religiose diverse si sono insediate nel territorio e nei tessuti urbani. Un approccio solo “républicain” o tardo-protestante, che considerasse lo Stato interessato solo alla garanzia della libertà di coscienza, dimostrerebbe una certa insufficienza davanti al fatto che non è possibile distinguere nettamente fra convinzioni religiose e la connessa appartenenza a culture antropologicamente “altre”, a volte radicalmente, e che a volte questi nuovi “vicini” non hanno neanche il concetto che sia possibile non professare alcuna religione e vivono come necessaria l’appartenenza ad una o all’altra comunità, a volte condizionata da appartenenze etniche o nazionali, quale sia il suo livello di organizzazione. Si aggiunga che le situazioni interne ad ogni comunità di provenienza estera sono molto differenziate. In una cittadina veneta, Alte Ceccato, tre moschee frequentate da persone provenienti dal Bangladesh fanno riferimento a tre gruppi religiosi islamici diversi, e a Mestre si è appena svolta una manifestazione per i diritti umani della minoranza indù del Bangladesh. Il grado di secolarizzazione della nostra società, in altri termini, spesso non corrisponde a quello di questi nuovi concittadini. Salvarani, relativamente all’Italia, indica alcune urgenze da risolvere a livello statale: in presenza di interlocutori effettivamente rappresentativi, l’estensione nei limiti del possibile delle Intese previste dalla Costituzione, il cui processo a suo dire si è bloccato o limitato a confessioni numericamente marginali; l’adozione di una legge sulla libertà religiosa, che fissi alcuni paletti e dia alcune garanzie a prescindere dalla realizzazione delle Intese; la riforma dell’insegnamento della religione nelle scuole, organizzato nel 1984 in modi ora non più utili in un mondo che non potrebbe essere più cambiato. Lo Stato deve porsi pertanto come garante attivo delle condizioni di convivenza e di dialogo, nello spazio pubblico, delle comunità religiose e culturali nella loro varietà e complessità, in un ambiente secolarizzato, ferma restando la realistica interlocuzione in essere con la Chiesa cattolica.
Dopo questa non inutile digressione sulla questione affrontata dal punto di vista della coesione repubblicana, è giusto tornare ai contenuti spirituali e sociali del libro in questione, difficili anche solo da elencare data la loro ricchezza e varietà. Esso si articola in tre sezioni. Nella prima, denominata “Orizzonti”: il teologo Claudio Monge si occupa, partendo dall’esegesi di alcuni passi della dichiarazione congiunta di Abu Dhabi di papa Francesco e dell’Imam della moschea di Al-Azhar, dell’urgenza sociale del dialogo interreligioso, dell’opportunità di una rifondazione della teologia in chiave antropologica interreligiosa e dl dialogo interreligioso come ricerca di convergenze al servizio dell’umano; un altro teologo, Pier Davide Guenzi, indaga sul contributo delle religioni per un’etica della città plurale; il professor Enzo Pace, sociologo delle religioni di rilievo internazionale, presenta i dati necessari a una valutazione realistica della situazione italiana ed europea e i dettagli di alcuni esempi di dialogo a livello civico particolarmente ricchi di risultati concreti: Bradford in Inghilterra, Bordeaux, Monaco di Baviera, anche Novellara in Emilia.
Nella terza, denominata “Declinazioni: lo spazio delle etiche applicate”: il teologo Leopoldo Sandonà investiga sulla bioetica come laboratorio dialogico; Simone Morandini e Matteo Mascia della Fondazione Lanza riprendono i temi sulla convergenza a supporto di “quella struttura ecosistemica planetaria che supporta la vita”, già trattati più ampiamente nel brillante volume intitolato “Cambiare rotta: Il futuro nell’Antropocene”, edito sempre dalle Dehoniane e commentato dalla nostra rivista con articolo del 23 giugno scorso, cui il presente si ricollega; la professoressa Francesca Marin dell’Università di Padova, filosofa, si sofferma sulla tematica non solamente ebraica del rapporto fra ritualità e sicurezza, e quindi fra tutela della salute e libertà religiosa, a proposito della circoncisione rituale. Ogni intervento affronta tematiche di grande portata, meriterebbe un articolo a sè e merita comunque un invito alla sua lettura.
La seconda sezione, intitolata: “Una sinfonia di voci”, come promette il titolo ha un carattere più rapsodico: più che approfondire le articolazioni concrete del dialogo, qui vengono messe in luce le aperture di ogni tradizione non cattolica verso ciò che è universalmente umano, e quindi potenzialmente condivisibile con gli altri. Per il pastore valdese William Jourdan “la consapevolezza protestante espressa in una identità che si articola, fin dalle sue origini, in forme plurali, dovrebbe rendere il protestantesimo più sensibile alle istanze di una società che è plurale”; pur tuttavia queste potenzialità si concretizzeranno “solo nel corso del Novecento […] nel 1973 attraverso la “Concordia di Leuenberg”, documento che sancisce un pieno riconoscimento reciproco fra le Chiese luterane e riformate […] sulla base di una comune comprensione dell’evangelo che non annulla le differenze” (pp. 64-65). Altre forme di dialogo sono in corso fra i protestanti storici e il crescente evangelismo carismatico, su cui è uscito presso Claudiana l’opera: “Valdesi, metodisti e pentecostali in dialogo”; Jourdan ne trae un passo (“Non si può escludere, intraprendendo con altre fedi il dialogo su Cristo, che Cristo per mezzo di noi parli a loro, e per mezzo di loro parli a noi”) che si può avvicinare alla sura coranica citata da Zanolo, anche se sembra riguardare il dialogo ecumenico più che quello interculturale.
Due interventi trattano delle altre religioni abramitiche. Miriam Camerini offre un saggio dell’inesauribile piacere intellettuale che può offrire lo studio della Torah ebraica, che “secondo i maestri, deve essere come il colpo di un martello sull’incudine: infinite sono le scintille (di senso, di significato) che se ne devono e possono sprigionare, e ogni volta diverse, come e perché sono diversa io che approccio il testo” (p. 74); non per questo ne esce una immagine meno problematica dei rapporti con Acher, con l’Altro. Yahia Zanolo distingue tre tipi di dialogo: quello di convenienza “ispirato da una filosofica indifferenza, o da un universalismo relativista”; quello di realtà sulla “comune accettazione di alcuni valori morali e concetti metafisici, nella consapevolezza di dover fronteggiare un comune pericolo di secolarizzazione”; quello di vertice, che consiste nel “riconoscere l’azione della Conoscenza che scopre l’unica Verità al di là del velo e della molteplicità delle forme” (pp. 82-83). Zanolo considera questo riconoscimento come fine ultimo del processo, ma dettaglia le forme del secondo, di cui riconosce la necessità, e auspica “una vera intesa – evitando fermamente ogni ombra di sincretismo – nell’attesa dello svelamento escatologico che metterà a nudo il nostro dramma umano, la cui natura e realizzazione permane nel mistero della divina Volontà” (p. 87).
Tre interventi trattano di tradizioni che non fanno riferimento all’unico Dio di cui parlava papa Gregorio VII, esprimendo, nelle parole di Morandini, “percezioni di verità espresse in forme assai diverse da quelle care al mondo mediterraneo” (p. 12). Amina Crisma offre una robustissima sintesi dei suoi studi sul confucianesimo e sul taoismo, approfondendo le molteplici valenze del Ren (senso dell’umanità che nei confuciani porta alla benevolenza e al coraggio contro l’ingiustizia all’interno del solidale ripetersi delle relazioni tradizionali) e del Dao (via, metodo, enunciazione, e nei testi taoisti eterna processualità che tutto racchiude, invisibile sorgente delle forme visibili): viene messa in luce la peculiarità del contributo etico delle due scuole di pensiero, che per Crisma consistono “nel sentimento di filialità (verso gli esseri umani e verso la natura) e nel senso del limite”, valorizzando nelle parole di Morandini “la pluralità e il cambiamento da cui esse sono attraversate” (p. 13). La monaca Hansananda Ghiri ricorda che per l’induismo “la Verità che è Una, i saggi chiamano con modi diversi” (Rig Veda, 1.164.46) e chiarisce che “perfino nelle dottrine in cui si afferma che il mondo manifesto ha una realtà ontologica, reale, il sat (manifesto) nasce dall’asat (trascendenza), unica sorgente indifferenziata”, Viene richiamata la nozione fondamentale di Dharma, che Ghiri propone di tradurre come “armonia”, sottolineando la ormai ben acquisita nozione che il pensiero orientale ha ricordato al nostro orgoglio di conquistatori che nella natura e nelle società tout se tient, come insegna e dimostra articolatamente nella sua enciclica ecologica papa Francesco; viene chiarito comunque che esso per gli induisti è “la maglia perfettamente ordinata di principi etici e fisici che tiene insieme l’intero Universo” (p. 111). Il professor Massimo Raveri di Ca’ Foscari, infine, spiega, con quella che Thomas Mann avrebbe chiamato “seconda semplicità”, il senso profondo del percorso buddista, con la sua straordinaria profondità intellettuale e il vivo senso di empatia col dolore di ogni essere vivente.
Lo scopo di questo volume consiste, secondo una espressione di Adriano Fabris, nello sviluppo di una “competenza dialogica”, che Morandini vede articolata nell’imparare a riconoscersi al di là dei pregiudizi e degli stereotipi (“chiamarsi per nome”), nell’ascoltare con attenzione e empatia l’argomentare altrui, nell’intendere le risonanze che si danno anche con parole diverse e nell’individuare percorsi di collaborazione, cura condivisa, orientamento alla prassi (p. 16). Non va nascosto che c’è anche un piano sottinteso di rivendicazione comune della visione religiosa del mondo rispetto al cosiddetto pensiero unico del mondo del mercato globale, unilaterale o unidimensionale come diceva Herbert Marcuse, da gestire con cautela perché non porti, pur nell’inevitabile rispetto del realismo politico, a forme di flessibilità di principio sul piano delle libertà e dei diritti. E va ripetuto che il processo viene molto accelerato dalle necessità indotte dalle contingenze storiche, non solo di quelle, così ben puntualizzate, che si danno nelle nostre città occidentali. Sono quasi un grido di dolore, per esempio, le parole dei vescovi dell’India che papa Francesco cita al n. 271 di “Fratelli tutti”: “l’obiettivo del dialogo è stabilire amicizia, pace, armonia,e condividere valori ed esperienze morali in uno spirito di verità e di amore”.