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di VITTORIO CAPECCHI e AMINA CRISMA
(in collaborazione con www.inchiestaonline.it )
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“Hai nascosto queste cose ai sapienti. Don Lorenzo Milani, vita e parole per spiriti liberi” si intitola il denso e documentatissimo volume di Riccardo Cesari che esce ora da Giunti, e che sarà presentato il 21 giugno alle 18 a Bologna in Biblioteca Sala Borsa, piazza Nettuno 3, dal cardinale arcivescovo Matteo Zuppi e da Romano Prodi.
Ne parlano con l’autore il direttore di Inchiesta Vittorio Capecchi, di cui è stato ripubblicato in questi giorni l’articolo “Il messaggio di don Milani” apparso nel 1967 sulla rivista Il Mulino (www.rivistailmulino.it e www.inchiestaonline.it ), e Amina Crisma.
Vittorio: L’occasione di entrare in contatto con l’esperienza di don Milani mi è stata data dai suoi scritti: sono state quelle letture a motivarmi a cercare il suo confessore e direttore spirituale, don Raffaele Bensi, che ho incontrato allora a Firenze e che mi ha dato molte dettagliate notizie su di lui, sulla storia della sua famiglia e della sua formazione, che ho puntualmente riportato nel mio articolo del ’67. E per te, quale è stata l’occasione? In altri termini, qual è la tua storia con don Milani? Nel tuo volume, ad esempio, ricordi un ruolo in questo senso importante di tuo padre: ce ne vuoi parlare?
Riccardo: Papà, nato nel 1926, era un semplice falegname, un artigiano (ma lui preferiva dire “artista”) attento alle vicende del suo tempo e quindi “presente”, credo, durante le due grandi polemiche legate al nome di Don Milani, la condanna di Esperienze Pastorali, nel 1958, e l’uscita di Lettera a una professoressa, nel 1967. Sebbene fosse un uomo di grande intelligenza, non aveva potuto studiare. Finite le scuole elementari aveva dovuto lavorare (e duramente) nella falegnameria del nonno. Solo a 20 anni si prese, da solo, la licenza di avviamento commerciale, studiando la sera in una scuola che si chiamava “Ars et Labor” a Bologna in via San Felice, tre anni in uno. Conosco tutti i particolari di quella vicenda perché me l’ha raccontata migliaia di volte. Ho spesso pensato ai suoi soli 6 anni di studio contro i miei 60 (si può dire che non ho mai smesso!). Papà poteva essere uno dei ragazzi a cui Don Milani aveva dato una via di riscatto.
V.: E veniamo al tuo libro. Il tuo volume ripercorre in oltre 600 dense e documentatissime pagine i vari aspetti dell’esperienza umana e intellettuale di don Milani. Ne emergono tutte le tematiche salienti: la visione della Chiesa, la concezione della scuola, l’opposizione al militarismo e alla guerra, l’obiezione di coscienza… Vorresti sintetizzare per i nostri lettori (soprattutto per i più giovani, fra i quali verosimilmente non sono molti ad averne un’idea precisa) gli elementi a cui hai dato più attenzione nella tua circostanziata ricostruzione?
R.: E’ stato un lavoro lungo e appassionante, cominciato dopo che per decenni, da quando ero ragazzo, ho accumulato tanti scritti di e su Don Milani. Ho ripercorso tutta la sua vita: bambino di ottima e illuminata famiglia fiorentina, ragazzo inquieto e agnostico che si dedica alla pittura, giovane che, di colpo, si converte e si fa sacerdote, portando dentro la Chiesa un ricchissimo bagaglio di cultura, razionalità, moralità, fede. Ho analizzato i suoi densissimi scritti: le lettere ai giornali e quelle agli amici, il libro del 1958, “Esperienze Pastorali”, il suo capolavoro, prontamente condannato dal Vaticano e ritirato dal commercio, la polemica sull’obiezione di coscienza, a metà degli anni ’60, con quel testo-simbolo del pacifismo che fu la Lettera ai Giudici ne “L’obbedienza non è più una virtù”, fino alla Lettera a una professoressa, del 1967, un mese prima di morire, testo, come molto del Priore di Barbiana, più citato che letto, più sventolato che capito, tanto dai detrattori quanto dai sostenitori.
Al di là delle singole indicazioni, sulla scuola, la società, il lavoro, il sindacato, molte ancora attualissime e preziose, per me Don Milani rappresenta l’esortazione all’indipendenza e al pensiero critico, al dubbio metodico e al dono di sé per gli altri, quelli che ti stanno vicino e che sono gli ultimi e i marginalizzati da una società che “trascura” e non ha cura.
V.: Fra le tante tue pagine illuminanti, ve ne sono alcune che hanno per me una risonanza speciale: quelle sulla dimensione profetica che accomuna don Milani e Simone Weil (e a proposito di quest’ultima voglio ricordare quanto siano state fondamentali, per me come per molti altri, le conversazioni con l’amico e maestro Pier Cesare Bori), e quelle sull’economia come scienza etica, da Keynes a La Pira. L’una e l’altra rappresentano da sempre temi particolarmente cari a Inchiesta. Potresti dircene qualcosa?
R.: Quella di Simone Weil, anche lei ebrea come Don Lorenzo, è stata una figura per lui molto formativa. Ne conosceva la vicenda e citava spesso la sua indifferenza al potere e alla carriera. Gli piaceva quella frase “Ho sempre considerato la destituzione il naturale coronamento della mia carriera scolastica”. Con questo spirito Don Milani affrontò la cacciata da San Donato di Calenzano e l’esilio a Sant’Andrea di Barbiana, un “penitenziario ecclesiastico” come l’aveva chiamato il suo amico Meucci.
Sull’economia ho messo in evidenza, forse per la prima volta, la figura eminente di un Don Milani economista, capace di analisi anche sofisticate, con pagine (in Esperienze pastorali) sul lavoro minorile e lo sfruttamento senza scrupoli degne del migliore Marx. Ma non dimentichiamo che la sua è una prospettiva evangelica, diciamo tra La Pira e Dossetti per citare due grandi riferimenti di quegli anni.
V.: Nella riflessione e nell’esperienza di don Milani, quale ruolo si configura per la donna e per il femminile?
R.: Contro una stupida disinformazione che vuole vedere un Don Milani misogino, ci sono tantissime pagine in cui egli mette in evidenza il ruolo, diverso ma tutt’altro che sottomesso, della donna e delle ragazze, che frequentavano la scuola di Barbiana non meno dei ragazzi, compatibilmente con il luogo e i tempi.
Ricordo due frasi del Priore che esaltano l’intelligenza (direi quasi la superiorità) della donna. Una dice: “I convegni riescono solo quando c’è le donne perché le donne sanno anche tacere e ascoltare e imparare a farsi conquistare dalle idee d’un altro.” L’altra ancora più graffiante (nei nostri confronti…): “l’unica differenza tra i maschi e le femmine è che le femmine capiscono qualcosa nei fatti altrui mentre i maschi capiscono solo nei propri”.
V.: Una dichiarata esigenza a cui dà voce il tuo libro è quella di liberare la figura e l’opera di don Milani “dalle incrostazioni ideologiche che da più parti l’hanno avvolta”: potresti dirci a che cosa, specificamente, ti riferisci?
R.: Don Milani è stato in vita, ma anche in morte, una figura divisiva e discussa. C’è una sua frase, come sempre efficacissima (Don Milani aveva una dote naturale di scrittura, i suoi testi sono bellissimi) che dice: “Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto. Mi sono attirato contro un mucchio d’odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti di conversazione e di passione del mio popolo. Ho seminato zizzania, ma insegno anche a chi mi darebbe fuoco”. C’è uno spirito missionario ed educativo molto forte nelle sue parole e nelle sue opere su cui ha speso tutte le sue forze, fino all’ultimo. Il suo messaggio non è banalmente di parte, è universale e profondo. Pochi l’hanno capito. C’è chi dice che ha l’aura dell’eversore mentre oggi (un po’ in ritardo, in verità) è omaggiato tanto dalla Chiesa quanto dallo Stato: da Papa Francesco (che andò sulla sua tomba nel giugno del 2017 in occasione dei 50 anni dalla morte) e dal Presidente Mattarella (che è salito a Barbiana a fine maggio, in occasione del primo centenario della nascita). Due grandi personalità, anche in questo loro generoso omaggio. Ma il messaggio di Don Milani è ad un tempo istituzionale ed “eversivo” esattamente come lo è la nostra Carta costituzionale, là dove – come spiegava bene Piero Calamandrei – entra in “polemica” non solo contro il passato liberticida ma anche contro il presente delle grandi diseguaglianze e degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana (l’art. 3).
V.: Rileggendo oggi gli scritti di don Milani si resta colpiti dalla straordinaria attualità dei suoi insegnamenti, come giustamente rilevi sin dalle prime pagine del libro. Un’attualità che, a tuo avviso, si evidenzia soprattutto su quali versanti di questo nostro problematico presente?
R.: A mio avviso l’attualità di Don Milani è su tanti fronti: nella denuncia (documentata, scientifica, quantitativa) delle disuguaglianze e dello sfruttamento dei lavoratori; nelle proposte sulla scuola, ad un tempo severa, aperta, aggiornata, attenta agli ultimi, cooperativa. Una scuola aperta tutto il giorno e tutto l’anno per dare la cultura, prima ancora delle tecniche. Una scuola che, negli anni dell’obbligo, non boccia “perché il tornitore non può consegnare solo i pezzi riusciti”. C’è una pagina bellissima sul dramma delle bocciature e dell’abbandono scolastico. Dice che da un lato c’è il dramma della mamma che si vede cacciato indietro il suo figliolo; dall’altro la maestra nel suo frettoloso attivismo: “La maestra è difesa dalla sua smemoratezza di mamma a mezzo servizio. Chi manca ha il difetto che non si vede. Ci vorrebbe una croce o una bara sul suo banco per ricordarlo. Invece al suo posto c’è un ragazzo nuovo. Un disgraziato come lui. La maestra gli s’è già affezionata.
Le maestre son come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire.” Parole che non lasciano indifferenti. Molto attuale, secondo me, anche il suo messaggio alla Chiesa per un annuncio evangelico fatto non solo per i poveri ma accanto ai poveri, “dalla cattedra ineccepibile della povertà” come diceva. La forza del suo messaggio è ancora “la parola e l’esempio” che ci ha dato nella sua breve ma intensissima vita.
Amina: Puoi dirci due parole sulla speciale qualità della scrittura di don Milani? Non si può non restare impressionati dall’icastica forza di certe sue espressioni, come il detto memorabile “L’obbedienza non è una virtù…”
R.: Hai ragione. Da un lato c’è una dote naturale, fatta di razionalità intellettuale, di sensibilità (il famoso I care) e di chiarezza di pensiero e di linguaggio: verrebbe da dire, parafrasando gli antichi, verba sunt consequentia rerum. E’ vero che meditava e rimeditava i suoi scritti per mesi ma è anche vero che sono altrettanto belle anche le lettere scritte di getto, all’impronta, negli ultimi giorni persino piegato dal dolore per il linfoma che lo stava uccidendo (si pensi alla lettera a Nadia Neri del 1966). Naturalmente non ha mai cercato l’effetto estetico della bella frase, che anzi odiava. Cercava invece la precisone scarna del linguaggio che definisce e cattura un concetto per poterlo trasmettere nella sua essenza inequivocabile. Ma c’è anche un lato “didattico” della scrittura. Grazie all’incontro con Mario Lodi, Don Milani e i suoi ragazzi misero a punto una tecnica di scrittura collettiva che è un sistema ben strutturato e ben illustrato in tutte le sue fasi grazie al quale un gruppo di adolescenti, montanari e illetterati, con più orecchio che parola, seppero produrre in meno di 9 mesi un piccolo capolavoro come Lettera a una professoressa. Naturalmente i detrattori, facendogli l’ultimo torto, negano che sia un lavoro collettivo e lo considerano opera del solo Priore. In realtà, allora era così malconcio che riusciva a malapena a coordinare il lavoro dei suoi ragazzi. La scrittura diventava così un’opera collettiva come un film o un’architettura; un lavoro che si realizza e si impara mettendo in comune le diverse abilità e sensibilità di ciascuno. Notava che anche se usi poche parole, ne capisci molte di più e per molte di più intuisci se rendono o non rendono l’idea. Alla fine di questo lungo sforzo collettivo, scrivevano i ragazzi con ironia, ci sarà sempre “l’intellettuale cretino” che ci vede “uno stile personalissimo”. Lettera a una professoressa è firmato Scuola di Barbiana proprio perché è il frutto del lavoro di tutti i ragazzi e ragazze (otto in particolare) che ci hanno lavorato col metodo indicato.
A.: Fra i tanti fatti significativi che narri, c’è l’episodio di un incontro (fallito) fra “montanini” e intellettuali… Vorresti raccontarci come andò?
R.: Ne parlo nel libro perché è un episodio significativo. Era stata appena pubblicata la Lettera, il Priore era morto da poco e la Casa della Cultura di Milano aveva organizzato un incontro tra alcuni dei suoi giovani autori e un gruppo di importanti intellettuali italiani: Dorigo, Forcella, Bini, Cancogni, Musatti, Pasolini, “venuto apposta da Roma col cuore gonfio d’emozione e una copia del libro gonfia di appunti”. Tutti ammiratori di quel libretto. Giorgio Pecorini, grande giornalista amico del Priore, scrisse la cronaca (abbastanza esilarante) dell’incontro. “Il meglio dell’intellettualità impegnata s’aggrappava alle 162 pagine del volumetto messo insieme quasi per gioco da un gruppo di ragazzetti montanari e contadini sotto la regia di un prete, lo difendeva come cosa propria, reclamava il diritto di usarne liberamente, anche contro la volontà e gli interessi di chi l’aveva scritto. Anzi pretendeva di spiegar loro perché lo avevano scritto e con quali inconsce intenzioni. Non solo: più forte e onesto era l’impegno, più aggressiva diventava l’opera di persuasione. Alla fine, per liberarsi dalla soffocante tutela, non restava davvero che mettere i piedi nel piatto e gridarglielo in faccia agli intellettuali di mestiere: i vostri elogi, le vostre spiegazioni e i vostri consigli ci servono ancora meno dei vostri libri e della vostra cultura. E glielo hanno gridato in faccia, a rischio di passare da pazzi o da ingenerosi.”. Erano davvero gli scolari del Priore.
A.: La documentazione concernente don Milani è oggi per la maggior parte pubblicata e/o divulgata, o quantomeno resa accessibile agli studiosi? Oppure ci sono ancora documenti significativi (penso a lettere, carteggi, appunti, diari e simili) che restano tuttora preclusi e inaccessibili all’indagine?
R.: Questo è l’aspetto meno edificante di tutta la vicenda. Si sa per certo che a Barbiana, alla morte del Priore, erano rimasti molti documenti, lettere, appunti, stesure iniziali. Michele Gesualdi, uno dei suoi ragazzi, vissuto col Priore, ne ha fatto per lunghi anni una gestione solitaria e personalistica, pubblicando a pezzi e bocconi, con scarsa attenzione filologica e documentale. Ogni tanto emergevano ed emergono tuttora “inediti” mentre dal 1974 la madre Alice Weiss e i fratelli Adriano ed Elena Milani hanno fatto un appello a tutti perché tutte le carte riguardati le vicende del Priore, almeno in copia, fossero raccolte, conservate, messe a disposizione presso la Fondazione per le Scienze Religiose (FSCIRE) di Bologna, quella che ha curato i due bellissimi volumi dei Meridiani Mondadori contenenti quanto finora è emerso. Ma, purtroppo, non è ancora tutto e la vicenda non fa onore agli “eredi” del Priore.
V.: “Un santo o un santino?” è il pregnante interrogativo che proponi nell’epilogo.
Come rispondi a questa domanda?
R.: Io non ho dubbi. Come non hanno avuto dubbi tanti che l’hanno conosciuto davvero: Padre Turoldo, don Bensi, Enriquez Agnoletti e tanti altri. Lo stesso Montanelli si chiedeva “Cosa aspetta la Chiesa a farlo Santo?”. Se la santità richiede la prova dei miracoli, Don Milani ne ha fatti tanti: ha dato la vista ai ciechi e ha fatto parlare i muti, i ragazzi, ultimi fra gli ultimi, destinati a un futuro di stenti, di povertà, abiezione ed esclusione sociale, che grazie alla sua opera di totale donazione hanno trovato la possibilità del riscatto sociale, culturale e anche di fede, ma come scelta libera e pienamente consapevole.