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di Amina Crisma
(in collaborazione con www.inchiestaonline.it )
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Un documentario di Elisabetta Giacchi e Thomas Saglia che si interroga problematicamente sulla irriducibile complessità del mondo cinese.
E’ un viaggio alla scoperta di un problematico confronto con il mondo cinese, fitto di interrogativi e di riflessioni, a costituire l’argomento di Project China, di Elisabetta Giacchi e Thomas Saglia, denso documentario che compendia in poco più di un’ora due anni di ricerche e di incontri con molteplici interlocutori di varia estrazione, età, condizione – cinesi che vivono in Italia, italiani residenti in Cina, sinologi, artisti, imprenditori, professionisti, studenti, giornalisti.
https://giacchielisabetta.wixsite.com/projectchina
https://www.facebook.com/theprojectchina
Ne emerge una caleidoscopica pluralità di voci e di prospettive diverse, incomprimibili in una reductio ad unum, che a sua volta propone ulteriori domande e sollecita a esplorazioni ulteriori, e invita a misurarsi con tale articolata complessità cercando di individuare riferimenti critici e chiavi di lettura utili a interpretarla. Se ne è parlato il 19 febbraio, in un incontro online visibile su youtube (https://youtu.be/ydbT1z9Ppl4 ) al quale ho partecipato insieme agli autori come discussant, promosso e coordinato da Guglielmo Cevolin (Università di Udine/Historia) nell’ambito del XXV Corso di Geopolitica di Historia, con gli interventi di Alessandra Basso, membro della Commissione Intelligenza Artificiale al Parlamento Europeo, di Fabrizio Cigolot, Assessore alla Cultura del Comune di Udine, del senatore Lodovico Sonego (Associazione Norberto Bobbio di Pordenone), e di Nicola Gasbarro, presidente del Comitato scientifico di Vicino/lontano.
Project China è un lavoro importante, non solo per l’indubbia centralità del tema che ne è oggetto, oggi più che mai cruciale, ma anche e soprattutto per la modalità in cui lo propone, con l’acuta consapevolezza che occorrono serietà e profondità di sguardo per affrontarlo; che occorre, insomma, adottare il passo lento del viaggiatore, e non quello frettoloso del turista, distanziandosi dall’illusoria rapidità e facilità degli stereotipi, dei luoghi comuni, delle risposte preconfezionate di cui quotidianamente ci inonda una quantità di garruli autopromossi “esperti” (ai quali andrebbe ricordato che non è certo uno slogan desueto il motto famoso “chi non fa inchiesta non ha diritto di parola”). Qui si delinea una visione non semplificata, in cui hanno spazio punti di vista plurimi e differenti, in cui si disegna nitidamente la molteplicità di aspetti di una realtà multiforme, irriducibile alla mera dimensione delle statistiche economiche, e che richiede per decifrarla un’articolata prospettiva storica e antropologica, oltre che una costante e vigile attenzione a tutto ciò che resta escluso o sottaciuto dal trionfalismo della Grande Narrazione ufficiale (valga per tutti l’esempio delle istanze del movimento di Hong Kong). Si evidenziano in particolare alcuni nodi contraddittori e paradossali di quella che definirei un’ambivalenza strutturale nella configurazione e nella percezione della realtà cinese, sia sul versante dello spazio sia su quello del tempo, e che sintetizzerei nelle polarità dei termini seguenti: • prossimità/distanza • trasformazione/continuità • costruzione/distruzione
A una sempre maggiore prossimità della Cina negli scenari della globalizzazione di cui le stesse vicende della pandemia hanno offerto un’eloquente attestazione, al suo integrale “passaggio a Occidente” sotto il profilo del sistema economico mondiale di cui essa è divenuta non solo parte integrante bensì centro propulsivo essenziale, si affianca la persistente distanza del suo orizzonte culturale, che continua ad esser percepito da noi (e ostentato nella sua presunta Differenza Assoluta rispetto all’Occidente dalla narrazione identitaria promossa dall’attuale leadership cinese) come irriducibilmente Altro e remoto. Alla percezione della veneranda antichità della civiltà cinese e della persistenza in essa di rilevanti aspetti di lunga durata (si pensi, ad esempio, al sistema di scrittura) si associa quella di una velocità di trasformazione frenetica, vertiginosa e spiazzante, al cui confronto il nostro mondo sembra torpido, senile, inerte. Tale incessante mutamento che riconfigura radicalmente gli spazi del materiale e dell’immaginario è animato da una energia selvaggia che, certo, infaticabilmente costruisce nuova abbondanza e nuova ricchezza, ma al tempo stesso distrugge e devasta irreparabilmente ambienti e luoghi, provoca nuove contraddizioni fra futuristica ipermodernità e persistente arretratezza, fra ricerca del benessere e nuove forme di povertà e di disagio (le condizioni in cui si svolgono le imponenti migrazioni interne ne sono fra l’altro eloquente attestazione). Si genera così uno sconvolgente spaesamento che a sua volta motiva la ricerca di possibili antidoti, di nuovi collanti per la psicologia collettiva in grado di fungere da succedanei a vecchie ideologie ormai desuete: e in tale chiave, come spiega Maurizio Scarpari in uno degli interventi più significativi del documentario, si può fra l’altro comprendere il “ritorno a Confucio” enfaticamente proclamato dall’attuale leadership cinese, e sorprendentemente distante dall’iconoclastia verso la tradizione caratteristico dell’epoca maoista.
Il lavoro di Elisabetta e Thomas si sottrae tanto alle mitizzazioni quanto alle demonizzazioni pregiudiziali, e risulta particolarmente pregnante nell’evocare il complicato intreccio di luci e ombre, tensioni e contrasti di questa immane trasformazione, rappresentata tramite la metafora di un treno inarrestabile, che scatena poderose energie, ma che al tempo stesso produce nuove forme di costrizione: e la domanda niente affatto retorica che in proposito si pone, è se ci sia alternativa possibile all’esser totalmente e ineluttabilmente coinvolti nella sua corsa travolgente.
E’ questo un interrogativo che sta sullo sfondo anche della rappresentazione dei cinesi della diaspora – visti attraverso gli occhi dei più giovani che spesso se ne fanno (non senza fatica) intermediatori linguistici e culturali – e a quanto pare connotati non meno dei cinesi della madrepatria da una strenua dedizione al lavoro e alla famiglia che si suole classificare come “tipicamente confuciana”, ma che i più vecchi tra noi riconosceranno invece per certi versi affine ad atteggiamenti d’un tempo assai poco esotici e alquanto familiari, ossia allo spirito di sacrificio in nome del futuro di figli e nipoti che ha caratterizzato generazioni passate di nostri connazionali, inclusa quella che ha ricostruito l’Italia nel dopoguerra, per cui l’emancipazione dalla povertà era un’ ardua battaglia quotidiana. Comunque si esaminino tali dinamiche, si tratta comunque di vissuti intricati, la cui valutazione in termini di costi e benefici (non solo economici) per i soggetti che vi sono a vario titolo implicati richiederebbe ulteriori, approfondite indagini. In ogni caso, esse non appaiono riconducibili tout court, nella loro problematica densità esistenziale, alla magniloquente celebrazione della funzionalità e dell’efficienza di una disciplina autoritaria che oggi viene presentata dalla leadership della RPC (e da non pochi suoi apologeti occidentali) come indiscutibile ed eterna quintessenza della sinità.
Nella non-conclusione che Project China configura, v’è l’invito a oltrepassare tale genere di rappresentazione astratta e reificata per restituire visibilità alla concretezza irriducibile delle esperienze umane a cui essa ambisce a sovrapporsi, e a continuare con nuovi viatici l’esplorazione intrapresa.